Dopo quasi un anno in cui l’ho vistosamente trascurata, ecco dedicarmi di nuovo, e a tempo pieno per cause di forza maggiore (leggi: quarantena per il CoronaVirus), alla rubrica “Cinematocrito“. E se l’ultima volta mi sono occupato di un film straniero, adesso tornerò in Patria per recensire una pellicola curiosa, atipica oserei dire. Sto parlando di “Camicia nera“, diretto nel 1933 da Giovacchino Forzano e prodotto dall’Istituto Luce dopo che il soggetto del film fu selezionato ad un concorso nazionale indetto ad hoc per il decennale della Marcia su Roma.
Sì, si tratta di una pellicola di propaganda del regime fascista italiano ma, nonostante sia palesemente un prodotto concepito in tempi antidemocratici, è a ben vedere un film inconsueto, non esente da grossi difetti e meritevole di essere sviluppato meglio, che merita comunque un’analisi attenta poichè rappresenta un’eccezione nel panorama cinematografico fascista ed anche perchè, mentre la maggior parte di quel genere di pellicola è costituita da una struttura narrativa classica del tipo fiction, qui ci troviamo di fronte invece ad un documentario vero e proprio intervallato da “momenti” narrativi e caratterizzato da alcuni elementi didattici misti ad altri di tipo descrittivo-enfatico (come ci si aspetta sempre dalla filmografia di regime), ma dotato però di un impianto stilistico ed un uso accorto del montaggio marcatamente di “sinistra”, come ora andremo a vedere.
La trama
Le vicende del film si dipanano tra il 1914 e il 1932: nelle desolate paludi pontine, spopolate dalla malaria, la miseria e l’emigrazione, ci vengono presentati un fabbro e la sua famiglia che vivono in una baracca (non ci sarà mai rivelato il nome di nessuno dei protagonisti, simbolicamente tipizzati). Il capofamiglia, allo scoppio della Grande Guerra, riceve la chiamata alle armi; ferito nel corso dei combattimenti, perde la memoria per lo shock finendo ricoverato presso un ospedale tedesco. Lì vi rimane per alcuni anni, mentre i parenti lo credono disperso. Quando finalmente recupera la memoria e torna in Italia, l’uomo troverà il Paese completamente trasformato grazie al fascismo e alle politiche sociali riformiste di Mussolini, che ha risanato il debito pubblico, eliminato la disoccupazione, combattuto la crisi economica e bonificato l’Agro Pontino. Il fabbro e i suoi cari ottengono così una casa e una vita migliore (il film si conclude con il discorso del Duce durante l’inaugurazione di Littoria, l’odierna Latina).
L’influenza stilistica “di sinistra”
Come accennato sopra, “Camicia nera” si discosta molto dal cinema politico classico (al quale invece appartiene l’altro film italiano di propaganda pura e diretta, “Vecchia Guardia” di Alessandro Blasetti, del 1934) perchè predilige la struttura documetaristica (effettivamente più efficace) per esaltare per tutta la sua durata le conquiste e i successi esaltati dal regime fascista. La pellicola non riesce però a mantenere quel perfetto equilibrio narrativo tra documentario e fiction con cui altri cineasti produssero invece dei capolavori (ma ciò risiede nell’inesperienza di Forzano, che esordì alla regia proprio con questo film dopo una proficua carriera di scrittore e librettista per l’opera lirica; collaborò anche con Mascagni e Puccini) e soprattutto nella seconda parte (il film dura un’ora e 40 minuti) il documentario finisce di fatto per prendere il sopravvento, appesantendo molto la pellicola e rallentandone il ritmo con un’enfasi pedante che finisce per mettere in secondo piano la storia a soggetto, anzi ad un certo punto i protagonisti scompaiono del tutto per rispuntare giusto in tempo nel finale. Ed è davvero un peccato, apprezzando infatti il lampante sperimentalismo artistico che pervade almeno due quarti della pellicola e che adesso analizzeremo.
Già il ricorso ad attori non professionisti o caratteristi (diretti non benissimo e, ahimè, dalla recitazione troppo artefatta) potrebbe indurre ad immaginare una scelta precorritrice del cinema neorealista post bellico, in realtà questa fu una caratteristica costante della filmografia fascista, con innumerevoli esempi come la cosiddetta “trilogia della guerra” diretta nei primi anni Quaranta da un esordiente Roberto Rossellini. Lo stile, in fondo, non si può neppure definire “neorealista”, nonostante il suono in presa diretta, qualche cadenza dialettale di maniera e le facce espressive e spontanee degli attori, ma “verista” nel senso verghiano del termine, cioè un’uso della realtà per scopi drammatici (e pre-ricostruiti).
In realtà, strutturalmente la pellicola è più debitrice del cinema sovietico che dell’altro più prettamente “di destra”, cioè quello nazista, all’epoca ancora in fase embrionale data la recentissima ascesa al potere di Hitler. Nonostante, infatti, il film esalti i valori fondamentali della dottrina fascista (il patriottismo, il nazionalismo, l’irredentismo, l’eroicità, la forza rivoluzionaria, l’importanza del lavoro produttivo e del mondo rurale) l’impostazione ha diversi punti di contatto con il cinema russo d’avanguardia dei vari Ėjzenštejn, Vertov, Kulesov e Pudovkin: l’influenza è parecchio evidente nell’uso del montaggio (dello stesso Forzano).
Non sappiamo se il regista avesse visionato le opere dei colleghi russi, ma risulta evidente che aveva ben presenti le loro teorie sull’arte filmica. Infatti, malgrado sia un film sonoro, “Camicia nera” possiede la struttura caratteristica del cinema muto del decennio precedente: uso (anche eccessivo) delle didascalie, utili comunque a capire, per quanto l’impostazione fosse di parte, il contesto socio-politico dell’epoca; un montaggio che tende a spezzettare molte scene in cui i personaggi interagiscono per provare a formulare emotivamente delle idee attraverso le associazioni d’immagini (un ottimo ecamotage ai tempi del muto, ma in un film sonoro è alquanto fastidioso vedere una sequenza tagliata bruscamente nel bel mezzo di un dialogo!) con una conseguente frammentarietà che a volta tramuta lo svolgimento fluido in un rozzo balbettio.
Ma, ribadiamolo, il montaggio rimane l’elemento migliore in questo film: evidentissimo quello analogico (esatto, proprio quello della super parodiata “Corazzata Potemkin“, diretta appunto da Ėjzenštejn), ma anche il tradizionale alternato per aumentare la drammaticità o l’enfasi di una scena, oppure il più sperimentale “montaggio delle attrazioni” (anche questo di ispirazione sovietica), consistente nel rapido assemblaggio di immagini ed inquadrature brevi che guidano lo spettatore nel dirottare concetti ed opinioni su un dato fatto oppure su un personaggio, anche se in “Camicia nera” è troppo elementare, ma efficace (ad esempio, la prima volta che nel film viene pronunciato il nome di Mussolini, immediatamente uno stacco ci mostra una lampada ad olio che irrompe nell’oscurità). Una menzione positiva a parte la meritano invece gli effetti speciali (curati da Eugenio Bava, padre e nonno rispettivamente dei registi cult Mario e Lamberto), ottenuti con tutto quello che il cinema dell’epoca poteva offrire (animazioni, modellini, mappe geografiche in plastica), che riassumono meglio di mille parole gli eventi o le vittorie del fascismo. Detto questo, ripetiamo che l’impostazione “di sinistra” riguarda unicamente il lato tecnico, giacchè l’ideologia era diametralmente opposta.
Gli elementi di propaganda
A dispetto di quello che si potrebbe credere, il cinema del Ventennio fascista fu il meno propagandistico tra i regimi dittatoriali degli anni Trenta, se paragonato alle coeve produzioni naziste e sovietiche. Infatti, il regime prediligeva una propaganda da attuare come “egemonia culturale“, affidata quindi alle scuole, ai centri culturali fascisti, alle case del fascio e a diverse manifestazioni di carattere intellettuale-artistico-sportivo (vedi i Littoriali).
Per quanto riguarda il settore spettacolo, nonostante la celeberrima asserzione del Duce “La cinematografia è l’arma più forte“, si deve distinguere tra propaganda “diretta” e “indiretta” all’interno dei film: padroni di non crederci, ma sotto il fascismo i film di propaganda diretta si contano sulle dita di una mano (e “Camicia nera” rientra appunto tra questi), mentre assistiamo invece ad un proliferare di messaggi politici indiretti inseriti tra i dialoghi, le scene o le caratterizzazioni attoriali in film decisamente più leggeri, drammatici o comici (e il caso dei noti “telefoni bianchi“). In larga parte, il regime preferiva non vietare (anche per non perdere il consenso popolare), censurare solo dove era necessario e imporre semplicemente una serie di regole e direttive ferree, sulle quali non si poteva sgarrare, chiedendo ai cineasti di non contraddire mai la dottrina e i valori del fascismo, ma lasciandoli liberi di sperimentare o di esporre idee e opinioni personali.
Una prova di tutto ciò risiede in un’ammissione di un grande regista italiano del dopoguerra, Mario Monicelli (antifascista), che compì i primi passi nella Settima Arte proprio durante il Ventennio: “(Mussolini) aveva imparato dai sovietici l’importanza della propaganda per immagini. Però il cinema in cui lavoravo da ragazzo non era votato alla propaganda. Si poteva girare quel che si voleva, a patto di evitare omicidi e adulteri. Così le storie di sesso erano ambientate curiosamente in Ungheria. Ci si convinse, non so come, che le ungheresi fossero tutte zoccole. La nostra Budapest era il quartiere Coppedé, con quelle case neoromaniche che evocano la Mitteleuropa. I nomi si sceglievano sulla guida del telefono”. I messaggi più correttamente diretti erano invece appannaggio dei filmati e cinegiornali dell’Istituto Luce o, appunto, di quelle pellicole prodotte con grande dispendio di mezzi e liquidità dal regime.
Trattandosi di una celebrazione della Marcia su Roma, “Camicia nera” rientra quindi nella branca della propaganda diretta e gli elementi relativi ad essa sono molteplici: dalla scelta di impiegare attori non professionisti (o meglio, “uomini nati di popolo di ogni regione d’Italia”, come recita la pomposa didascalia iniziale) chiamati ad interpretare delle tipizzazioni simboliche del popolino e del mondo rurale, al mostrare il film dal punto di vista dei reduci della Grande Guerra (che il fascismo, inizialmente nato come movimento antisistema, aveva accolto tra i suoi ranghi), fino alla rappresentazione del Mussolini “positivo”, cioè quello delle riforme e del risanamento sociale, fino alla (becera) rappresentazione delle sinistre e dei sindacati, descritti come un’accozzaglia di incompetenti scollegati dalla realtà sociale e buoni solo a proclamare scioperi.
In più, abbiamo quelle solite enfasi e semplificazioni puerili tipiche del cinema propagandistico (ed anche di certo cinema politico dell’era democratica): la scena, di una comicità involontaria imbarazzante, in cui il protagonista recupera la memoria davanti al filmato di un discorso di Mussolini, gridando “Italia! Italia!”; i tedeschi tutti buoni e cari con gli italiani (tra i primi segnali d’intesa con la Germania nazista); i sindacalisti violenti che non comprendono i reali bisogni dei lavoratori e della Nazione, picchiatori ed incendiari degli esercizi commerciali di chi non ci sta (in realtà, come sappiamo, le violenze ci furono da entrambe le parti); l’ingenuità con cui si esalta la lettura degli articoli di un Mussolini ancora socialista. Curiosamente, il film fa solo un breve accenno all’irredentismo italiano di Istria e Dalmazia ed omette del tutto l’impresa fiumana di D’annunzio, mentre è scontato che non parli nè dell’omicidio Matteotti nè dello squadrismo (che negli anni Trenta veniva considerato alla stregua di un parente scomodo). Di contro, si può affermare come il film sia molto più interessante come documento storico, a partire dal campionario di dieci anni di canzoni patriottiche o fasciste: si va dalla “Leggenda del Piave” all’“Inno di Mameli” (ancora “Canto degli Italiani”) fino alle notissime canzoni nere, come le iconiche “All’armi“, “Giovinezza” o “Me ne frego“.
In definitiva, se non vi crea nessun disagio ideologico, questo film un’occhiatina se la merita per capire un’epoca molto più complessa di come venga ancora raccontata. NOTA BENE: quella visionata da noi è la versione INTEGRALE del film, tranquillamente reperibile su Youtube.
Qualche curiosità
- Il bambino che interpreta il figlio del fabbro all’età di otto anni è Pino Locchi, che da adulto diventerà uno dei più noti doppiatori italiani (prestò la voce a Sean Connery, Tony Curtis, Terence Hill e Charles Bronson, tra i tanti);
- Nella parte che esalta i numeri e i successi del regime nell’edilizia pubblica sono inquadrati per qualche secondo il Duomo e alcune strade di Reggio Calabria;
- La versione tedesca del film (intitolata “Schwarzhemden“) fu curata dal regista Herbert Selpin, autore del primo film sonoro sul naufragio del Titanic, “La tragedia del Titanic” (1942), fonte d’ispirazione (non dichiarata) di James Cameron per il suo campione d’incassi del 1997.