Non solo lo sbarco sulla Luna: il 1969 è stato letteralmente un anno d’oro anche dal punto di vista della solenne arte delle sette note. Due importantissimi eventi hanno raggiunto in questi giorni lo straordinario ed invidiabile traguardo del mezzo secolo: trattasi di un album ed un concerto che hanno cambiato per sempre la storia della musica, segnando un netto confine tra “vecchia” e nuova tendenza e influenzando band e solisti ancora oggi, nel bene e nel male.
“Abbey Road” ed il destino di Paul
Correva l’8 agosto del 1969 quando, complice un’intuizione brillante di Paul McCartney, i Beatles realizzarono una cover per album destinata a rimanere nella storia della musica e non solo. Per quelle poche, pochissime persone che ignorano di cosa stiamo parlando, i “Fab Four” stavano ultimando proprio in quei giorni i lavori di quello che sarebbe stato il loro ultimo album in studio: “Abbey Road“, reso fruibile al grande pubblico il 26 settembre del 1969 (e non è un caso che, proprio il prossimo 27 settembre, la Apple Corps Ltd./Universal lancerà sul mercato una nuova, freschissima versione dell’iconica opera beatlesiana, con un nuovo mix del produttore Giles Martin e di Sam Okell, in stereo: stereo in alta risoluzione, 5.1 surround e Dolby Atmos, con incluse oltre 23 tracce tra sessioni di registrazione e demo, la maggior parte dei quali inediti).
Pezzi leggendari della band contenuti nel disco – come “Here comes the sun” e la trascinante “Come Together” – meritavano ovviamente una “confezione” altrettanto degna della bellezza dei brani incisi. Dopo una svariata ed allucinante selezione di proposte, fu proprio McCartney ad avere il “lampo di genio”: disegnò su un foglio uno schizzo della band mentre attraversava le strisce pedonali di Abbey Road, la famigerata via davanti la quale si trovava lo studio di registrazione dei Beatles e, dopo aver ottenuto dai suoi compagni l’approvazione, fu contattato il fotografo Iain Macmillan per dare forma al progetto.
Macmillan immortalò i Beatles sulle strisce la mattinata dell’8 agosto 1969, avvalendosi dell’aiuto di un poliziotto locale, di una scala posta in mezzo alla strada e della sua fedele Hasselblad. Il risultato finale, nella sua semplicità, fu a dir poco strepitoso: attualmente, la cover di “Abbey Road” è una delle più emulate da star, turisti, fedelissimi ascoltatori della band inglese il cui successo è rimasto inossidabile nel corso degli anni, nonostante i misteri che aleggiano attorno ai quattro di Liverpool. Ed è proprio il giallo sulla “presunta morte” di Paul McCartney ad essere indissolubilmente legato alla realizzazione della copertina di “Abbey Road”. Paul è infatti l’unico che viene immortalato senza scarpe nella foto di rito (in Inghilterra alle salme non vengono fatte indossare calzature) e l’unico ad avere la gamba destra in avanti mentre attraversa le strisce; inoltre, il celebre componente dei “Fab Four“, notoriamente mancino, impugna tra le dita della mano destra una sigaretta. Tracce di questa teoria, nota con il nome “Paul is Dead” (“Paul è morto”) sarebbero inoltre disseminate nella canzone, contenuta nell’album “Revolver”, “Eleanor Rigby“. Che sia frutto della fervida immaginazione di qualche “complottista” o che dietro tale leggenda esista un fondo di verità, non v’è dubbio alcuno che “Abbey Road” continuerà a rimanere una pietra miliare nella storia non solo della musica, ma anche della fotografia per lungo, lunghissimo tempo.
Woodstock, festival di fuoco
Bethel, Stato di New York, 15/18 agosto 1969: una tre giorni di fuoco, tramandata ai posteri con un solo, unico, altisonante nome: Woodstock. Una vera e propria celebrazione della musica rock, con personalità di spicco dell’universo delle sette note che calcarono con grinta e sex appeal il palco sito nei 15 acri di proprietà di Elliot Tiber; un main event promosso da Michael Lang, John P. Roberts, Joel Rosenman e Artie Kornfeld che radunò nella tre giorni di festival qualcosa come 500mila persone, pronte ad inneggiare alla pace e all’amore libero (coadiuvati, purtroppo, anche da un uso massiccio di droghe), ballando senza sosta sulle note delle canzoni più rappresentative della cultura hippie e degli psichedelici anni Settanta. Sul palco della kermesse più famosa al mondo (replicata negli anni, ma incapace di bissare il successo colossale della prima manifestazione) si alternarono personalità del calibro di Joan Baez, Creedence Clearwater Revival, The Who, Santana, Joe Cocker ed un coinvolgente Jimi Hendrix, che si esibì nella mattinata del lunedì successivo in una epica performance di ben due ore. Woodstock rappresentò non solo per gli appassionati del genere, ma anche per i fruitori di “buona musica“, una delle manifestazioni più importanti nella storia dello spettacolo: un evento che, ancora oggi, non conosce rivali.
Manson Family: la pagina nera degli anni Sessanta
Il 1969 non si caratterizzò solo per momenti memorabili nella storia delle arti spettacolari. Anche nella tragica vicenda che vide suo malgrado protagonista Sharon Tate (moglie del discusso regista Roman Polanski) la musica gioca, seppur marginalmente, un ruolo. Durante le giornate del 9 e del 10 agosto la banda, tragicamente nota con il nome di “Manson Family“, commise quello che potremmo definire un vero e proprio eccidio ai danni della povera Tate (incinta all’ottavo mese di gravidanza), nonché di Steven Parent, Wojciech Frykowski, Jay Sebring e Abigail Folger prima e dell’imprenditore Leno LaBianca e sua moglie Rosemary poi. Il manipolo di truci assassini era guidato da uno dei serial killer più prolifici e terribili della storia del crimine: Charles Manson. Sulle mura dell’abitazione di Sharon Tate e dei coniugi LaBianca i componenti della malsana famiglia Manson scrissero “PIG” ed “Helter Skelter“, quest’ultimo titolo di una canzone proprio dei Beatles.
Personalità carismatica e contemporaneamente disturbata sin dalla sua giovinezza, Charles Manson aspirava in effetti ad una carriera da musicista. Fan accanito di Lennon e compagni, Manson coltivava con scarso successo il sogno di diventare un musicista hippy e le sue capacità con la chitarra – unite a indubbie doti oratorie – attirarono attorno a sé una nutrita schiera di fedelissimi, specialmente di sesso femminile. Un’ammirazione, diventata successivamente devozione assoluta, che costò cara a Manson e ai suoi seguaci: arrestati tutti poco dopo i drammatici omicidi di Tate e dei coniugi LaBianca, attualmente la maggior parte della banda continua a scontare la propria pena carceraria. Manson morì, invece, di cancro nel 2017, solo e senza vedere mai più la luce del sole se non dalle sbarre della prigione nella quale stava scontando una condanna all’ergastolo per le sue ben poco leggendarie gesta.