“La domanda alla quale stavo rispondendo nella conversazione con l’artista contemporaneo David Salle era focalizzata sul confronto fra l’arte e il politicamente corretto. Personalmente ritengo che, in un mondo ideale, qualsiasi attore dovrebbe poter interpretare chiunque e l’arte, in ogni sua forma, dovrebbe essere immune al politicamente corretto“. Questa limpida dichiarazione rilasciata dall’attrice Scarlett Johansson al noto portale “Entertainment Weekly” ha infiammato gli animi di fan e attivisti, schierati a favore o contro la Vedova Nera dell’universo cinematografico Marvel e divisi dal sempreverde dilemma del “politically correct” applicato alla Settima Arte.
Ammettiamolo: il dovere di essere sempre e comunque politicamente corretti sta raggiungendo picchi di stucchevolezza a dir poco inaccettabili, specialmente in ambito artistico; soprattutto negli USA, dove vige l’irrefrenabile e (talvolta) incomprensibile desiderio di applicare una sorta di “par condicio” non sempre necessaria e che spesso, invece di offrire spunti di riflessione, fomenta odio e alimenta critiche taglienti e controproducenti. Esempio lampante è, appunto, la polemica sterile che ha investito la bionda attrice, musa di Woody Allen, già entrata nel mirino dei puristi per aver prestato voce e corpo al Maggiore Motoko Kusanagi, protagonista dell’anime e del live-action “Ghost in the Shell“. In quella circostanza si puntò il dito contro le fattezze caucasiche della Johansson, rea di aver osato interpretare un personaggio dichiaratamente orientale.
Il dibattito, stavolta, si inasprisce maggiormente. Oggetto della contesa la possibilità, alla quale Scarlett Johansson ha già rinunciato per una questione di rispetto, di interpretare il gangster transgender Dante “Tex” Gill nel film “Rub & Tug” di Rupert Sanders (già regista del sopracitato “Ghost in the Shell”). Opportunità unica per la diva di “Match Point” di cimentarsi in una prova attoriale a dire il vero non inedita per gli attori cisgender. Prima di Scarlett, infatti, altre star hollywoodiane avevano impersonato ruoli transgender su grande e piccolo schermo, da Jared Leto a Felicity Huffman;
attori che, però, non sono stati investiti da proteste da parte della comunità LGBT e dei perbenisti solo per una mera questione di fortuna: il controverso sentimento del “politicamente corretto“, infatti, è esploso come una bomba ad orologeria solo negli ultimi anni. Un sentimento, peraltro, piuttosto duttile, perché non sempre preso in considerazione o perché plasmato a proprio piacimento per portare a termine le proprie, discutibili, battaglie.
Nessuno, a ben vedere, si è mai realmente posto il problema della fedeltà totale ad un’opera letteraria o animata dal quale trarre materiale per un film. In casa Disney, ad esempio, la probabile povertà di idee si è tradotta in un lancio massiccio di live-action tratti dai cartoni che hanno fatto sognare intere generazioni e rafforzato l’impero del caro “zio” Walt. Per i neofiti del genere, il live-action altro non è che un “film nel quale le vicende di un noto cartone animato, fumetto o videogioco vengono interpretate da attori in carne ed ossa“. Gli orientali sono maestri indiscussi del genere e cercano di mantenere una fedeltà pressoché assoluta all’opera di riferimento. Nel live-action e nel dorama (ovvero le fiction giapponesi, coreani, cinesi ed orientali in genere) tratti dal manga “Nodame Cantabile“, ad esempio, i protagonisti presentano fattezze molto simili se non addirittura identiche a quelle rappresentate nell’opera cartacea di Tomoko Ninomiya; medesimo esito si è ottenuto nei film ispirati al manga “Death Note” ed in tutti i lavori che prevedano attori in carne ed ossa tratti da light novel o da fumetti provenienti dal Sol Levante.
La Disney, invece, ha ben pensato di piegare il significato stesso di live-action a favore del “politically correct“, generando una vera e propria spaccatura tra i suoi seguaci più affezionati. Continua a rimbalzare sui social media la diatriba sul rifacimento del lungometraggio animato “La Sirenetta“, uscito nelle sale ben 30 anni or sono. Ad interpretare la rossa e dalla pelle diafana Ariel (una delle principesse Disney più amate da grandi e piccini) è stata chiamata l’altrettanto bella Halle Bailey, cantante afroamericana. La prima domanda balzata nella mente di cinefili ed aficionados dell’opera disneyana è: “Perchè?“.
Sia chiaro, non dovrebbe essere e non è assolutamente una questione di razzismo, ma solo di fedeltà all’opera di riferimento. Eppure, il disappunto per una scelta così drastica ha scatenato un’ondata di sdegno travestito da sentimentalismo “arcobaleno”. Chiunque osi sollevare una piccola obiezione a tale scelta artistica viene tacciato di razzismo; si pongono, a dimostrazione di tali tesi, svariati esempi di cambi di vedute; si inneggia ad una svolta “epocale” nel modo di pensare, si auspica ad un addio del “sovranismo bianco” nel mondo del cinema… Tutto questo solo per un film.
Si tratta, in realtà, di qualcosa di più complesso. Le stesse persone che fremono per applaudire in sala alla prima sirena di colore, così come alla prima eroina Disney apertamente – o forse no – omosessuale (trattasi di Elsa, la bionda protagonista di “Frozen“), gridano al “fascismo” di fronte al live-action ispirato a “Il Re Leone“: questa, in ordine temporale l’ultima, assurda polemica sollevata dal “Washington Post“. Celebrare le avventure del re della foresta con un film indirizzato alle famiglie si traduce, per il giornale, in una sorta di apologia alle dittature, con Simba additato a novello Mussolini e la sua canzone portante, “Il cerchio della vita“, che diviene “Un doloroso promemoria del programma ideologico del film. Ci introduce in una società dove i deboli hanno imparato a venerare i più forti“. Dichiarazioni pesanti, che sarebbero da rispedire al mittente con una grassa risata, dato che tra le celebrità che hanno prestato la voce al live-action in imminente uscita spicca il ruggente ed inconfondibile timbro – rigorosamente “black” – di Beyoncé. La morale della favola è che ogni ideologia, anche se inizialmente alimentata da buone intenzioni, può essere “raggirata” o “reinventata” in nome di una causa ben poco nobile e che poco ha a che vedere con il desiderio di trasmettere alle nuove generazioni il giustissimo ideale di uguaglianza e parità di genere. La verità è che il politicamente corretto può invece divenire una nuova forma di “estremismo”, più subdola e meno facile da arginare.