Luigi Di Gianni

Il 10 maggio 2019 è venuto a mancare, a 92 anni, a Roma il regista e documentarista Luigi Di Gianni; probabilmente, questo nome a buona parte dei lettori non dirà granché, ma stiamo parlando di uno dei migliori cineasti italiani che, sulla falsariga di artisti come Cesare Zavattini e Vittorio De Seta (di cui era grande amico ed estimatore), ha realizzato diversi film di approfondimento antropologico e sociale, per il cinema e per la Rai, incentrati soprattutto sui riti religiosi di stampo pagano del Mezzogiorno, un’area geografica particolarmente cara a lui, romano di nascita ma di padre lucano e madre napoletana. Per diversi anni, ben oltre l’età pensionabile, Di Gianni è stato anche titolare della cattedra di “Istituzioni di Regia” presso il DAMS dell’Università della Calabria, corso di laurea da me frequentato tra il 1999 e il 2005. Sì, a sto giro l’editoriale di cinema mi riguarderà da vicino, dal punto di vista umano e culturale, quindi si tratterà di una lettera d’addio a chi fu anche il relatore della mia tesi di laurea.

Caro prof, è stato davvero molto triste questa mattina aprire Facebook e vedere un post che annunciava la sua scomparsa; triste perché ci eravamo persi di vista, tra la lontananza e gli immancabili impegni della vita, nonostante avessimo l’amicizia su Facebook, ossia quella comoda camomilla che ti fa credere di essere costantemente in contatto con qualcuno quando invece è solo una questione di like e commenti che non compensano nulla. Avevo sempre creduto che un giorno, passando da Roma, sarei andato a trovarla nella sua casa alla Garbatella, dove ci vedemmo una volta sola nel 2005 quando io, che avevo appena incominciato la mia avventura romana per tentare la carriera nel cinema, ero avido di consigli e necessitavo urgentemente del suo parere; di quell’incontro mi ricorderò sempre il suo salotto invaso da un’enorme console di montaggio (letteralmente, lei possedeva casa e bottega!) ed un largo tavolo basso ingombro di libri e libretti dei più svariati generi. La vita e il sorgere di un’altra passione (il giornalismo) mi hanno poi portato lontano dalla Capitale e ricollocato a Reggio Calabria, ma dentro di me immaginavo (e speravo) che qualche ci saremmo rivisti. Ma così non è stato.
Si ricorda, prof? L’ultima volta che ci incrociammo fu in un ristorante capitolino, lei era stato invitato ad una cena mentre io festeggiavo il compleanno di un caro amico; mi ricordo le quattro parole che scambiammo, il suo “oh, caro Mammì, come va?” (lei chiamava tutti per cognome!) e il suo incoraggiarmi nel proseguire il giornalismo quando le confessai che con il cinema avevo avuto alterne fortune, al punto da lasciar perdere.
E dire che, all’inizio, l’avevo pure trovata antipatico! All’università, un giorno che ero passato per farmi un’idea sulla materia e le sue lezioni, dato che ancora stavo seguendo altri corsi per gli esami, feci capolino nell’aula stracolma (la lezione non era ancora iniziata), lei era già seduto alla cattedra mentre altri studenti erano ancora nel corridoio; io parlottavo con qualcuno fermo sulla porta, lei ci vide ed esclamò un po’ infastidito: “Gentilmente, chi non deve seguire la lezione se ne vada fuori e chiuda la porta!”, cosa che io feci andandomene mugugnando! Mi perdoni. Eh sì, le sue lezioni erano sempre seguitissime e l’aula traboccava letteralmente di studenti (i ritardatari erano costretti spesso a sedersi sul pavimento, ma per il prof. Di Gianni ne valeva la pena!), perché, professore, lei non insegnava la teoria del cinema, ma l’azione della regia, la concretezza di respirare la polvere del set, la capacità di inquadrare un primo piano con la telecamera o capire come si scelgono gli obiettivi. E tutto questo senza tanti bla bla: lei ci sballottava ovunque, lassù all’Unical o persino a Roma, cercava di farci sentire tutta l’adrenalina, la fatica e l’entusiasmo di cosa significhi “girare un film“.

La regia, secondo lei, non era solo un mestiere, ma uno stile di vita quasi spirituale: per questo ha continuato ad insegnarla finché le forze glielo hanno consentito (“divulgare il cinema, per me, è una missione“, ripeteva spesso), riuscendo a coinvolgere persino chi pensava solo ad arrivare alla data dell’esame. Lei, con la sua umanità e semplicità, ci aveva convinto che il cinema fosse una cosa solenne e facile da ottenere nello stesso tempo, un gioiello prezioso a portata di mano (per questo tentai superficialmente la carta avventata di Cinecittà credendo fosse un gioco da bambini, accidenti a lei!), insomma una fiamma che arde nell’animo ma che bisogna tenere costantemente alimentata affinché non si dissolva nell’aria. Forse non ho avuto fortuna in campo cinematografico, prof, ma quella fiamma la mantengo viva dedicandomi alle recensioni.
Recensioni che trasudano di tutti i consigli che lei ci forniva: valutare sempre il punto di vista dell’autore, la costruzione delle inquadrature, la direzione degli attori e della fotografia e non lasciarsi mai condizionare dall’eventuale ideologia di un regista (ci fece vedere ed apprezzare persino i documentari nazisti di Leni Riefenstahl sostenendo, a ragione, che fosse una grande regista prestata alla parte sbagliata della Storia). Lei, prof, nei suoi documentari ci metteva l’anima, soprattutto in quelli che raccontavano il Sud, da lei amato più che dagli stessi meridionali: del Sud lei ha saputo valorizzare diverse tradizioni culturali e popolari, anche quelle più estreme tacciate di folclore ignorante da buona parte dell’opinione pubblica. Del Mezzogiorno lei amava proprio tutto e voleva propagandare l’importanza del documentario proprio qui dove ancora esistono manifestazioni culturali dalle radici profonde e ben radicate; amava la bellezza delle donne meridionali (“le donne più belle d’Italia sono le siciliane e le calabresi”, diceva) e si prodigava spesso in complimenti veri e galanti, da vero uomo d’altri tempi, nei confronti delle studentesse, che apprezzavano molto. Certo, solamente su una cosa mi troverà perennemente in disaccordo: secondo me, il regista inglese Peter Greenaway, che lei diverse volte ci portava come grande esempio di cinema d’antan (e che dovemmo studiare bene per l’esame!), non è un autore con la A maiuscola e non ha mai prodotto bei film, il suo è solo un finto cinema d’autore, un Carducci che si crede Dante. Mi perdoni anche per questo; dopo tutto, se alla fine scelsi lei come relatore per la mia tesi su Martin Scorsese, fu perché mi fidavo del suo intuito registico, non solo da docente, inoltre ricordo quanto lei glorificasse il film “Fuori Orario” del regista italo-americano, ed in questo caso mi trova completamente d’accordo.
Potrei elencare diversi altri aneddoti o ricordi su di lei, professore, ma non voglio annoiarla più di tanto, dopotutto sono sicuro che lei li ricorda benissimo, ora più che mai.
Arrivederci prof, preferisco non dire addio perché è una parola che non mi piace, neppure adesso
“.