Rielaborazione di un articolo comparso sul sito edicoladipinuccio.it nel 2014
Stavolta parlerò di un film che, al di là delle reali intenzioni dei suoi autori, è uscito fuori dalla carreggiata risultando persino ambiguo: “Lo scugnizzo” (1978) di Alfonso Brescia. Questo film è una pellicola marchiata dall’ambiguità e per anni è stato addirittura introvabile, anche se da qualche tempo è finalmente disponibile in Dvd; personalmente, io avevo visualizzato la versione integrale dell’opera sul sito Trashopolis.com (vi consiglio un giro in questa miniera d’oro di film e programmi tv/radio che il mainstream non vi mostrerà mai), ma adesso vi risulta rimossa. Il film rientrava in un pacchetto produttivo, finanziato da Ciro Ippolito, che comprendeva anche “L’ultimo guappo”, “Napoli serenata calibro 9”, “Il mammasantissima”, “I contrabbandieri di Santa Lucia”, “Napoli…la camorra sfida, la città risponde”, “Zappatore”, “Carcerato”, “I figli… so piezz’e core” ed altre pellicole, tutte dirette da Alfonso Brescia ed interpretate da Mario Merola, tranne “Lo scugnizzo”. I film, usciti nelle sale tra il 1978 e il 1981, furono in pratica girati contemporaneamente oppure uno di seguito all’altro, dopo averne abbozzato e scritto le sceneggiature in pochi giorni, come ha raccontato Ippolito, autore lui stesso di buona parte dei soggetti. Bisogna riconoscere a questi film il merito di aver saputo mescolare la sceneggiata napoletana (con tutti i topoi del caso) con il genere “poliziottesco”, che all’epoca andava per la maggiore in Italia; il risultato sono queste trame volutamente anacronistiche, dove assieme alle situazioni tipiche della sceneggiata (tra cui quella più abusata: Isso, essa e o malamente) convivono rapine efferate, inseguimenti e omicidi sanguinosi.
La figura di Gennarino e la trama
E, ovviamente, non mancano neppure le pause canore, con Merola che in qualsiasi momento si lancia ad eseguire un brano del suo repertorio, persino in mezzo ad una sparatoria! Inutile dire che, tra tutti i film, quelli che ebbero più successo erano le pellicole con una trama poliziesca, mentre quelle senza neppure un accoltellamento risultavano particolarmente noiose, perse tra drammi sentimentali e piagnistei. Ecco, “Lo scugnizzo” rappresenta un’eccezione: per prima cosa, è l’unica tra le direzioni di Brescia (scomparso nel 2001) in cui non compare Merola e non si sente neppure una sua canzone; secondo, non è appunto una sceneggiata pervasa da umori polizieschi. Eppure non annoia. Come da titolo, riprende la figura di Gennarino, tipico esempio di scugnizzo napoletano, che come tale è sempre apparso in varie sceneggiate ed anche in film ambientati nel capoluogo campano sin dagli anni Venti; in questo caso, il film si ricollega a due famosi polizieschi in salsa napoletana, “Napoli violenta” e “Napoli spara!”, usciti tra il 1976 e il 1977, in cui compariva questo ragazzino che doveva mostrare il lato buono del popolino napoletano e che riconosce l’autorità dei commissari protagonisti e li rispetta. Questo personaggio fu ripreso da Brescia nei polizieschi – sceneggiata “Napoli serenata calibro 9”, “I contrabbandieri di Santa Lucia” e “Il mammasantissima”, in cui fu interpretato dal piccolo Marco Girondino, il quale ritorna nello “Scugnizzo” diventandone il protagonista assoluto da spalla meroliana che era (e si può dire che il film non sia altro che lo spin – off dei tre citati prima, anzi ne “I contrabbandieri di Santa Lucia” c’è persino una sfacciatissima pubblicità dello “Scugnizzo” all’interno di una scena). Il film, tra quelli diretti da Brescia, sembra essere il più genuino nella trama e nella caratterizzazione dei personaggi; una storia vera e propria non c’è, la struttura è quella della narrazione episodica, uno stratagemma che spesso è adoperato per non incorrere nei buchi di trama, un rischio sempre in agguato in questo genere di film girati in poco tempo. A ogni modo, la trama è questa: Gennarino vive in un basso del centro storico di Napoli con la mamma adottiva Angela, un’ex cantante caduta in disgrazia (perché è caduta in disgrazia? Come è successo? Non si sa) e il cane Barone; i due si esibiscono come artisti di strada, ma Angela è molto malata (di un’indefinita patologia) e non può più cantare o recitare. Visto che i soldi sono pochi, Gennarino andrà incontro a molte peripezie malavitose per poter comprare le medicine necessarie, ma tanto si capisce fin dal primo fotogramma che Angela morirà, tra le lacrime di Gennarino e impennate audio – vocali. Scusate lo spoiler, ma queste storie sono molto prevedibili; la genuinità del film risiede nella storia, che è molto meno anacronistica dei coevi film meroliani oltre a presentare meno luoghi comuni di quanto la trama richieda.
Buone intenzioni, ma confuse
Sembra che gli autori vogliano puntare la macchina da presa sul disagio sociale che da sempre attanaglia Napoli, e alcuni suoi quartieri in particolare, raccontando non tanto la vita di un tipico scugnizzo, ma le concause che possono portare uno dei tanti ragazzini di strada partenopei a delinquere. Solo che lo fa nel modo sbagliato: nella sua foga di renderci simpatici tutti i personaggi (tranne le forze dell’ordine. Prima avvisaglia di ambiguità) finisce per renderli stereotipati (lo scugnizzo, la mamma dolce che si dispera, il cane piazzato lì per fare tenerezza o anche alcuni personaggi di contorno) e privi di qualsiasi interesse, anche perché la storia in sé non ha alcuna originalità. Ci sono sequenze che vorrebbero essere di denuncia, almeno così pare, come la scena all’ospedale in cui Angela si reca con Gennarino ai primi sintomi della malattia (tra l’altro, nei venti minuti iniziali stava benissimo senza alcun malessere) che in teoria vuole mostrare alcuni casi di malasanità (c’è pure uno spassoso cameo di Lucio Montanaro nei panni di un degente che si lamenta in pugliese di quanto lo trattino male, il quale muore improvvisamente sotto un autobus, un momento scioccante tenendo conto che prima si ride di gusto mentre sta parlando) e si odono imprecazioni d’ogni sorta. Ma ce ne sono svariate altre che non si capisce cosa vogliano spiegare, come quella del ricettatore che sfrutta baby ladri, nelle cui fila entra anche Gennarino, o del carcere minorile in cui finisce il protagonista (ha causato involontariamente la morte di un componente della sua banda) in cui i bambini sembrano fregarsene altamente del luogo in cui si trovano e solo Gennarino piagnucola per tutto il tempo (occhio alla scena del sogno, stucchevole e indigesta, in cui vede Angela sotto forma di Madonna di Fatima!).
Piccola curiosità: nella sequenza del teatrino carcerario c’è anche un bimbo che fa l’imitazione di Beppe Grillo. Ovviamente, Gennarino fuggirà con l’aiuto di un compagno e la polizia lo cercherà solo il tempo necessario per passare all’altro episodio; veramente, non lo cercano più fino alla fine del film e lui, ripeto, è finito in carcere per omicidio! Ancora, perché in questo film il protagonista viene sempre giustificato in ogni mala azione che commette? D’accordo, vuole riuscire a comprare le medicine per curare la mamma malata, ma veramente tutto deve essergli concesso? La commozione che lo accompagna è totalmente forzata al solo scopo di far sentire in colpa lo spettatore più smaliziato che si è accorto che Gennarino è un delinquente minorile bello e buono; inoltre, ad un certo punto sembra delinquere solo per il piacere di farlo e per i soldi facili, quasi scordandosi di avere a casa la mamma a letto che deperisce. Tutto questo ha un effetto destabilizzante e produce anche un messaggio pericoloso.
L’ambiguità verso la camorra
Un’ultima cosa: è improbabile che un bambino finisca in un carcere minorile essendo il limite dell’età imputabile di 14 anni, mentre Gennarino deve avere tra i 10 e gli 11 anni, ma vabbè, questa è la logica dei film sgangherati, di cosa ci dobbiamo meravigliare? Vi è però un elemento originale: il personaggio del giornalista, interpretato da Gianni Garko, che a nome di una fantomatica trasmissione tv “Caos ‘72” gira per Napoli con un operatore intervistando gente in difficoltà e le stesse riprese vengono mostrate nel corso del film, ma i casi umani che documenta sembrano anticipare gli sketch di Ciprì e Maresco per “Cinico Tv”. Mi sono però dimenticato un piccolo particolare: forse non è del tutto vero che non ci sia qualcosa di poliziesco nel film perché nell’ultima parte c’è l’episodio di Gennarino e il boss dei contrabbandieri (seconda avvisaglia di ambiguità): Gennarino sembra ammirare profondamente i boss, tant’è che appena sente due marsigliesi progettare di far fuori un noto capo del traffico di sigarette, interpretato da Rick Battaglia, corre subito da lui per spifferargli tutto. Ovviamente, le sue parole porteranno ad una strage di trafficanti francesi, ma chissenefrega, è solo felice per aver aiutato i contrabbandieri che danno lavoro a tante persone. Infatti il boss lo premia con un lauto compenso. Ma stiamo scherzando? Veramente si arriva a suggerire che la camorra ha il cuore d’oro e aiuta i disperati, mentre gli altri se ne fregano? Qui l’ambiguità è persino inquietante, sembra che Gennarino ottenga il massimo dell’aspirazione frequentando un boss e pare già pronto a diventare un killer spietato, vista la freddezza con cui assiste alla morte dei brutti e cattivi marsigliesi.
E arriviamo al finale, con la morte di Angela su un autobus che la dovrebbe portare all’ospedale: una sequenza che vorrebbe essere commovente, ma risulta solo sadica (la donna, agonizzante, viene fatta alzare dal letto, viene vestita e costretta a fare una lunga rampa di scale a piedi, mentre è chiaramente più morta che viva). E qui c’è un altro elemento ambiguo: la povera Angela è l’unica, tra i personaggi del film, che si preoccupa di insegnare l’onestà a Gennarino, come tutte le mamme amorevoli, ed anche di farlo studiare a casa. Con la sua morte sembra andarsene anche l’unico barlume di civiltà di tutto il film, perché viene allegramente suggerito che Gennarino diventerà un galoppino della camorra, orfano sì, ma sempre con i soldi in tasca. In America direbbero “What the Fuck??” e non traduco. In definitiva, il film è gradevole da guardare, non è affatto noioso grazie ai molti cambi di registro, ma è troppo ambiguo nel suo messaggio palesemente a favore della malavita. Si può comodamente apprezzare come reperto d’epoca essendo una sceneggiata, ma è impossibile da rivalutare come film trash perché il sotto testo malavitoso è insistito in modo più pressante rispetto perfino ai coevi film di Brescia con Merola, e non che quelli fossero meno espliciti nel glorificare i guappi. Il merito del gradimento va comunque solo agli attori, perché la regia è piatta e a volte scade nella volgarità: Angela Luce, nel ruolo di Angela (nomen omen), è convincente come solo una grande attrice di teatro sa essere e canta anche in una scena (è stata una delle migliori interpreti della canzone partenopea). Purtroppo è penalizzata da un trucco che la imbruttisce e da una parrucca rossa da pagliaccio che il suo personaggio usa inspiegabilmente anche per farsi una passeggiata. Il piccolo Girondino è ottimo, spontaneo e molto simpatico, nonostante una certa negatività del suo personaggio. Per il resto, che dire, vedetevelo senza pregiudizi, questo film possiede comunque un certo fascino vintage, come molte altre pellicole dell’epoca.