Ancora scottati dalle delusioni di ieri, abbiamo recuperato con due film niente male che, uno con le risate e l’altro con toni disperati, hanno qualcosa da dirci sull’ossessione per il denaro e la violenza ormai innervati in tutte le società del mondo: ci riferiamo allo statunitense Anora e all’italiano Mani nude, visionati oggi, ottavo giorno della Festa del Cinema di Roma.
“Anora”, quando ridere tanto non fa male
Selezionato alla categoria “Best of 2024” e diretto dall’indipendente Sean Baker (che firma anche la sceneggiatura e il montaggio), autore degli acclamati Tangerine e Un sogno chiamato Florida, Anora è una Cenerentola invertita di segno, una favola divertente e non banale sul nostro inesorabile declino materiale. Trama: spogliarellista in un night di New York, Anora detta Ani, di origini russe, sbarca il lunario offrendo lap dance e numeri speciali nei privè a qualsiasi cliente danaroso; quando il giovane Ivan, figlio di un miliardario russo, la porta a Las Vegas e la sposa, apparentemente innamorato, la ragazza crede di aver fatto il colpaccio. Ma i genitori del viziatissimo figlio di papà lo scoprono, mandano un faccendiere e due guardie del corpo ad annullare il matrimonio, ma Ani non ha certo alcuna intenzione di divorziare.
Commedia scatenata e chiassosa senza un attimo di respiro, la pellicola è di quelle che fa sganasciare in tantissime scene con la sua comicità ai limiti dello slapstick (spassosa la gag degli scagnozzi alle prese con l’isteria di Ani), ma si rivela molto amara nella sua descrizione dell’amoralità di tutti i personaggi e del denaro che ormai ha contaminato ogni settore sociale, i rapporti umani, i sentimenti e i corpi (evidente nella caratterizzazione facilona della protagonista, spesso seminuda come richiede il mestiere o in abiti succinti), ma giocando con gli stereotipi rivoltandone di frequente i più abusati. Certo, pecca di leggerezza o superficialità come nella contrapposizione tra americani e russi (e russi e armeni) o in altre situazioni, facendoci chiedere per quale motivo il film sia stato fregiato della Palma d’oro a Cannes 2024, ma è capace di trarre più di uno spunto amaro dall’avidità e l’edonismo sfrenati che muovono qualsiasi azione umana; e tratteggiando una protagonista molto meno stupida di quello che sembra (e il primo a crederci è proprio lo spettatore), la quale ha la possibilità di rispolverare rocambolescamente le proprie radici russe trovando infine un modo per maturare, anche se forse non cambierà stile di vita e rimarrà chiusa nelle sue false convinzioni sul denaro, come sottolineato anche dal finale scontato e consolatorio nella forma, in realtà l’ennesimo sberleffo pervaso da un pizzico di cinismo. La confezione è impeccabile, mentre la struttura narrativa ricalca un topos della classica commedia americana (tutte le avventure si svolgono nell’arco di una notte) sulla strada già percorsa da titoli noti come Fuori Orario, Tutto in una notte o Accadde una notte, anche se qui non vi è alcuna rigenerazione sentimentale. Brava (e irresistibilmente sexy) la protagonista Mikey Madison, vista in C’era una volta a…Hollywood di Tarantino, ma anche il resto del cast non è da meno (e dà l’aria di divertirsi un sacco). Il film sarà disponibile nelle sale a partire dal 7 novembre.
“Mani nude”, la parabola di una disperazione
Nell’ambito della sezione “Grand Public” abbiamo invece scelto di vedere un film che senza risate ci fa invece ragionare su un altro risvolto decisamente incisivo nella società attuale: la violenza. Ecco perciò Mani Nude. Trama: la discesa agli inferi del diciottenne Davide, che un giorno viene inspiegabilmente rapito e costretto a lottare a mani nude in un tir contro un uomo fino ad ucciderlo. Tenuto in ostaggio da una feroce organizzazione che pianifica incontri sanguinosi di lotta clandestina per ricchi in cerca di emozioni forti, avrà nel suo carceriere Minuto un’inaspettata figura paterna e un sostegno in mezzo all’orrore. Ma i due scoprono di essere accomunati da una terribile vicenda accaduta nel loro passato.
Dopo l’esordio con Non odiare (2020), il regista Mancini torna a raccontare il tema della violenza; ne riprende il protagonista Alessandro Gassman e lo cala (molto bene) in un’altra parabola sulla vendetta percepita come catarsi, ma destinata ad ottenebrare ancora di più il cuore senza possibilità di redenzione. Per quasi mezz’ora, il film sembra un Fight Club casareccio (con qualche eco di Hostel), poi si trasforma in un dramma lucido e struggente con colpe da scontare, padri assenti e riscatti irrealizzabili.
Gli riesce molto bene la narrazione di una società traboccante di furore e della gente che sembra averne un disperato bisogno pur di affrontare un problema o mettere a nudo l’anima; e si tiene lontano dal trasformare i due protagonisti in eroi, dipingendoli come due dannati autodistruttivi e smaniosi di subire le conseguenze delle loro azioni. Inoltre, ci troviamo anche una riflessione (che poteva essere analizzata meglio) sui genitori ormai incapaci di proteggere i figli dai pericoli. Mancini ci mette un po’ a dare plausibilità alle motivazioni di Minuto (vuole davvero vendicarsi di Davide?), ma ne tira fuori l’intenso ritratto di un uomo distrutto dal rimorso che alla fine accetta laconicamente il suo destino. Bella la fotografia di Sandro Chessa, che spesso non illumina gli attori, ma sembra lambirli sulla scena. Gassman è ineccepibile nei panni di Minuto, ma il giovanissimo Francesco Gheghi gli ruba spesso la scena, mentre non si smentisce mai Renato Carpentieri (il boss dell’organizzazione).