Due settimane di sbornia cinematografica al Rome Film Fest 2024 mi hanno fatto tornare la voglia di recensire e rimettere mano alla rubrica “Cinematocrito“, già ravvivata dagli articoli dedicati alla kermesse capitolina. Questa volta (come tante altre volte, per la verità), mi occuperò di un film che avrebbe meritato sicuramente di più in termini di memoria, tirato fuori dal cilindro degli anni 90, un decennio d’oro per la filmografia prodotta in Sicilia, isola in cui è ambientato. Un film che, a suo tempo, aveva riscosso un certo successo e destato curiosità per poi cadere ingiustamente nel dimenticatoio. E’ ora di tributargli tutta l’analisi seria che merita. Sto parlando di Tano da morire, esordio alla regia di Roberta Torre del 1997.
Trama: Palermo, 1988; Tano Guarrasi (la storia in parte è vera), uomo d’onore, viene assassinato a colpi di pistola nella sua macelleria della Vucciria. L’omicidio (e le sue ripercussioni) è solo un pretesto per descrivere con cura l’ambiente mafioso in cui l’uomo si è formato e, più in generale, la sottocultura malavitosa ed una certa mentalità siciliana. Malgrado il titolo, infatti, il vero protagonista non è Tano, ma la cerchia di familiari, amici e gregari che lo circonda e ne rammenta le “gesta”, mentre il fenomeno mafioso in questo film è dipinto come qualcosa di così sfuggente ed oscuro da non poter costituire parte attiva nella narrazione, venendo invece evocato.
Girare un musical tragicomico su Cosa Nostra (anzi, il primo musical sulla mafia, come riportato dai poster dell’epoca) a pochissimi anni di distanza dalle stragi di Capaci e via D’Amelio poteva essere un azzardo, invece l’opera prima che rivelò al mondo la creatività della regista Torre si dimostrò una pellicola originale e azzeccata che abbandona gli orpelli epici di buona parte della filmografia mafiosa precedente per scegliere di illustrare dal basso la quotidianità della mafia (e, di conseguenza, il suo squallore) calando lo spettatore in un mondo di piccoli malavitosi di quartiere, grotteschi, ridanciani e destinati a non diventare mai padrini. La Torre dirige con sicurezza e senza alcuna presunzione (purtroppo tipica di diversi film d’esordio) allestendo sullo schermo un ambiente ignorante destrutturandolo e demitizzando gli uomini d’onore e i loro pseudo valori (Tano, più che un boss, è ritratto spesso come un balordo prepotente), scegliendo di stampare riti e rituali mafiosi sui volti dei personaggi ed inserirli nei comuni gesti di ogni giorno.
Meneghina trapiantata a Palermo, la Torre evita accuratamente ogni facile cliché sulla mafia e, quando lo fa, li usa solo per sbeffeggiarli, svuotarli di ogni senso sottolineandone i paradossi o qualche aspetto ancora duro a sparire. Tano da morire si inserisce a metà tra il fortunato filone del neo neorealismo (quello di Mery per sempre e Ragazzi fuori) ed il cinema iperrealista e crudele di Ciprì e Maresco (non a caso, la smagliante fotografia, coloratissima, kitsch e quasi espressionista, è firmata proprio da Daniele Ciprì) ribaltandone il registro ed usando un senso del bizzarro fuori dagli schemi: sviluppa tutta la storia per blocchi narrativi (la vita mafiosa, la metodologia criminale, la gelosia verso le sorelle, i rapporti con gli “amici”, l’infanzia, l’omicidio) e libere associazioni, con trovate visive ardite e ben integrate nel plot, procedendo gradualmente verso una sempre maggiore cupezza ed angoscia finale sfociante in un amaro sfogo quando, dopo un’ora e un quarto di racconti in terza persona, è il morto stesso a prendere la parola accusando tutta la fauna umana attorno a lui delle peggiori recriminazioni, dimostrando così che la genesi delle mafie risiede dove persiste una forte miseria morale e materiale, in cui il denaro e l’apparenza di forza e potere contano più di ogni altra cosa.
Pirotecnico, psichedelico, sgangherato e a briglia sciolta ma, a modo suo, sorprendentemente coeso e compatto, Tano da morire si affida ad un narratore non esterno alla storia ma facente parte del contesto e che spesso parla dall’interno della messinscena guidando ed istruendo lo spettatore su personaggi, situazioni o espressioni verbali altrimenti incomprensibili, mentre tutto attorno aleggia non solo una sinistra atmosfera pregna di morte, quest’ultima essenza stessa dello stile di vita dell’onorata società, ma anche un’iconografia e una terminologia della cultura siciliana (i teschi con gli occhi strabuzzati che ondeggiano al buio [richiamanti le famose “teste di morto” siciliane], i riferimenti ad una spiritualità mortifera, il concetto di trapasso che fa capolino praticamente ovunque, nelle canzoni, nei dialoghi, in quasi ogni inquadratura, il funerale di Tano che appare e scompare come una combriccola di fantasmi in diverse scene) figlie di un passato storico spesso causa di dolori, fatiche e povertà conducenti indissolubilmente alla solitudine, al pessimismo e alla tristezza, come sottolineato anche da Giovanni Falcone nel suo libro Cose di Cosa Nostra.

Lo stile e la tecnica

Trattandosi di un musical, passiamo doverosamente ad analizzare l’ossatura di tutta la pellicola: quella colonna sonora e quelle canzoni prodotte dello straordinario lavoro musicale (pluripremiato) di Nino D’Angelo che argutamente non ha scelto uno stile unico per tutti i brani, modellandone invece ciascuno secondo un preciso genere musicale (rock, rap, blues, neomelodico, musica popolare) con un gusto discontinuo che ben si sposa con la sopra citata sfuggevolezza mafiosa, impedendo così qualsiasi tentativo di catalogare questo film (e ciò che racconta) all’interno di un unico filone. La musica ricopre un ruolo impressionista evidenziante quello che le immagini mostrano o anche solo accennano: il ballo degli affiliati in stile Saturday Night Fever che festeggiano l’ingresso di Tano in Cosa Nostra, il collettivo Rap’ e Tano (spassoso) coinvolgente tutti i negozianti e gli ambulanti di una Vucciria pre movida, la Tammurriata degli spioni scrutante pasoliniani visi di pentiti o presunti tali che si alternano mimando i gesti delle famose tre scimmiette (l’incasinato e convincente montaggio è di Giogiò Franchini), l’intensa Femmene sole che, assieme all’immediatamente successiva Uommene d’onore, dice sul patriarcato (quello vero, quello mafioso) molto di più degli slogan e il frasifattismo di questi anni.
Lo stesso discorso vale per la messinscena, di evidente impostazione teatrale, con le scenografie che cambiano dentro lo stesso scenario o i continui intermezzi di un gruppo di donne d’onore dalla parrucchiera che fungono da vero e proprio coro. Anche qui il genere sfugge evanescente: si passa dalla sceneggiata napoletana al languore melodico, dal film d’inchiesta (con tanto di servizi tg e finte interviste) per arrivare al comico demenziale, con una recitazione straniante e volutamente artificiosa (tutti gli interpreti sono non professionisti) che non sviluppa affatto i personaggi (che spiccano subito allo sguardo in tutta la loro immediatezza facciale e verbale con il dialetto stretto sottotitolato) ma sembra, nella sua apparente svogliatezza o nella parossistica esuberanza urlata, approfondire quell’ angoscia mafiosa che rende inutili e prive di senso persino le relazioni umane. Una riflessione, ripetiamo, affiorante in un mare di lazzi e risate.
E, di conseguenza, anche la tecnica registica ci immerge in un tripudio di immaginazione e sagacia visiva in gran parte riprese dal cinema di genere anni Settanta, recuperando coraggiosamente un look cinematografico persino fuori moda: l’uso dello split screen (lo schermo diviso in più parti), le luci colorate, le croci al neon e, più in generale, l’illuminazione scenica affidata a delle comuni lampadine da mercato, le già nominate canzoni dance, le scenografie di cartapesta e gli effetti da quattro soldi disegnati direttamente sulla pellicola, gli stacchi di montaggio a tendina e l’abbigliamento camp di molti attori; un fiume in piena di puro cinema che va avanti ben oltre i titoli di coda. Per non parlare poi dell’utilizzo audace di molte inquadrature, come quella fissa, raso terra e vertiginosa che presenta buona parte dei protagonisti, in realtà una soggettiva di Tano morente, o l’effetto fluido dei tagli d’immagine durante l’incubo ad occhi aperti di Franca, sorella di Tano o, ancora, i frequenti zoom sporchi e sbilanciati che pare vogliano catapultare lo spettatore dalla poltrona all’interno dello schermo.
In definitiva, un tentativo riuscito di rinnovare un certo cinema pop e impegnato che non ha poi avuto alcun seguito: dopo aver ottenuto il premio Settimana Internazionale della Critica al Festival di Venezia 1997 (un’annata d’oro che fece conoscere un cult del cinema italiano anni Novanta: Ovosodo di Paolo Virzì), due David di Donatello (miglior regista esordiente e migliore musica), tre Nastri d’Argento e quattro Ciak d’Oro, il film sparì molto, troppo velocemente per diventare un cimelio sugli scaffali dei cinefili, mentre Roberta Torre preferì tornare lungo i binari di un cinema più convenzionale, ma non per questo meno interessante (come ad esempio con il bel Angela, 2002, che lanciò Donatella Finocchiaro), dirigendo anche documentari ed intraprendendo la regia teatrale. Su Youtube e Dailymotion è disponibile la versione completa del musical: corriamo tutti a recuperarlo!