Capita a tutti di sbagliare e oggi noi di “A Punta di Penna” ne prendiamo atto facendo pubblica ammenda: abbiamo scelto due film che sulla carta sembravano avvincenti ed emozionanti per poi rivelarsi alla visione dei passi falsi clamorosi. Questo è quello che abbiamo provato noi assistendo alle proiezioni dell’italiano L’albero e dell’horror statunitense Longlegs nel settimo giorno della Festa del Cinema di Roma.
“L’albero”, o meglio pubblicità progresso contro la droga
Il film che ci ha deluso di più: avevamo grandi aspettative non solo per la presenza nel cast della rivelazione Carlotta Gamba (la fantasmatica Beatrice nel Dante di Pupi Avati ed interprete anche di Vermiglio, tra i selezionati per l’Italia alla sezione Miglior Film Internazionale degli Oscar 2025), ma soprattutto perché, da quanto letto ed ascoltato, sembrava una pellicola azzeccata. E invece…
Scritto e diretto dall’esordiente Sara Petraglia, concorre al Film Fest per la Miglior Opera Prima nell’ambito della categoria “Progressive Cinema“: ed è proprio un’opera prima, nel senso di film denso di crismi, presunzioni, ansie da esordiente e l’ambizione di vincere subito un premio. Trama: Bianca e Angelica sono amiche conviventi in un appartamento al Pigneto di Roma, dove frequentano l’Università (anche se non le vedremo mai frequentare neanche una lezione): entrambe omosessuali e inconfessabilmente attratte l’una dall’altra, passano il tempo soprattutto a bere, sniffare e fare incontri estremi. Bianca, la più sensibile ed ossessionata da Leopardi, si droga senza una ragione plausibile, mentre Angelica sembra avere qualche trauma in sospeso (verrà mai approfondito? Ve lo dico subito, no!). Dopo essere quasi andate in overdose, le due iniziano ad interrogarsi se sia meglio continuare a drogarsi oppure no.
La trama è tutta qui, semplice semplice e senza alcun esplorazione di fondo: eppure la regista ci tiene a blandire il film manco fosse un Pasolini o un Fassbinder, scomodando lo stracitatissimo Leopardi (povero Giacomino!) per farne un leitmotiv frequente con i suoi versi letti da Bianca e le paturnie di scolastica memoria sulla giovinezza bella ma sfuggente, spensierata ma fragile e per dare una qualche profondità a due ventenni che passano il tempo ad autodistruggersi senza un vero perché. Non è girato male, ma per cercare di infondere un’interiorità alla fine non pervenuta inserisce, come in quasi tutte le opere prime, un rosario di trovate visive carine e simboliche, però facilotte (l’albero del titolo, che si vede dalla finestra in mezzo al grigiore urbano, come ovvia metafora di speranza o la corsa in bici della protagonista piena di salite, cadute e rialzate) che fanno tanto cinema autoriale, ma solo chi non ha dimestichezza con i veri registi può abboccare ad una prevedibilità così ammosciante. Film presuntuoso e deprimente in definitiva, che non aggiunge nulla ai temi della tossicodipendenza, del male di vivere o dell’omosessualità; e permeato di un certo moralismo che fa capolino a metà storia dopo una prima parte compiaciuta di sbornie, sniffate, amorazzi squallidi ed un viaggio al limite a Napoli. Moralismo che diventa fastidioso nel finale (con epilogo al cimitero) con il solito concetto che la redenzione debba necessariamente passare attraverso la morte di qualcuno (qui l’amica Celeste affetta da tumore), altro passaggio narrativo stravisto in decine di altri film, che noia! Se volete rifarvi gli occhi, correte a rivedere Trainspotting o qualcos’altro da quelle parti là, perchè qui veramente non ci siamo. Peccato solo per le due protagoniste, che si impegnano con risultati notevoli: oltre alla succitata Gamba, gli apprezzamenti vanno anche a Tecla Insolia che interpreta Bianca.
“Longlegs”, come ti spavento con i “buu”
Seconda delusione di oggi: un horror che a prima vista prometteva benissimo grazie al nome dell’istrionico pazzoide Nicolas Cage in cartellone e invece…invece si è dimostrato l’ennesimo filmetto con spaventi a buon mercato e sangue a litri. Ecco a voi Longlegs. Piccola premessa: non appartengo a quella schiera di gente che considera a prescindere Cage un pessimo attore prestato al cinema mainstream, ma su di lui ci torniamo dopo. Trama: Oregon, metà anni ’90; la giovane agente dell’FBI Lee Harker si vede assegnare il caso ultraventennale del serial killer Longlegs, uno psicopatico con un insolito metodo di uccidere: manipola psicologicamente le vittime fino a spingerle ad ammazzarsi tra loro. Mezza sensitiva (un dettaglio non meglio spiegato), Lee si butta avidamente sulle indagini anche perché, frugando tra i suoi ricordi d’infanzia, sembra abbia avuto già a che fare con l’assassino in passato…
Diretto da Osgood Perkins (regista di February e figlio dell’attore Anthony) e presentato nella sezione “Grand Public“, un horror di grandi pretese che non mantiene le buone premesse iniziali (l’inquietante e malsano ricordo sui titoli di testa e la prima sequenza debitrice del Silenzio degli innocenti). Ecco qua, questo è quanto: Perkins mantiene sveglio lo spettatore sottolineando il forte e sempre più coinvolgente legame psichico tra la protagonista e Longlegs (con tanto di colpo di scena, per la verità telefonatissimo), ma la tensione evapora molto presto e la paura (se proprio così la vogliamo chiamare) si concentra solo sulla fotografia a volte contrastata con le luci basse più spaventose dell’oscurità, spaventi improvvisi (o “jumpscare” per chi preferisce l’inglese) a colpi di effettacci sonori in Dolby Surround e fragori musicali, bambole inquietanti, babau che sbucano dagli angoli bui e la rivelazione finale a base di riti satanici, frattaglie e immagini scioccanti (ma mica tanto). E’ questo il vero horror? Per niente, e qui facciamo una piccola lezione di cinema: un horror deve spaventare, certo, ma anche lasciare nello spettatore uno strascico di ansia e disagio interiore, non accontentarsi di qualche “buu” inserito qua e là, il più delle volte gratuitamente.
Ed eccoci a Nicolas Cage, che riveste il ruolo (truccato male) proprio del killer Longlegs: in qualità di produttore del film, è ovviamente libero di fare tutte le smorfie che vuole e di destreggiarsi nella sua riconoscibile recitazione non sopra le righe, ma oltre i limiti della recitazione stessa; forse, l’attore si è ormai abituato a tutte le parodie e prese in giro internettiane della sua “arte recitativa” e pare voglia da anni fornire solo un po’ di ulteriore materiale per qualche meme su Facebook. Ovviamente, tutto eccessivo anche se un po’ funzionale ai fini della pellicola; ad ogni modo, secondo me Cage rimane la quintessenza del mestiere dell’attore come me lo immagino io: qualcuno che non deve mettersi la maschera, ma essere egli stesso maschera, grottescamente senza alcuna restrizione, completamente modellato sul personaggio e non il contrario.