Quarta giornata all’insegna della cultura, concepita secondo due differenti visioni, oggi alla Festa del Cinema di Roma 2024: la celebrazione di un pilastro del teatro e della letteratura del Novecento come Luigi Pirandello in Eterno Visionario e la cultura stessa come atto rivoluzionario di emancipazione con Reading Lolita in Tehran.

“Eterno visionario”, la vita e la creatività che si fondono

Co-prodotto con il Belgio e pronto ad uscire nei cinema il prossimo 7 novembre, Eterno Visionario ci offre, per la prima volta nella storia dello spettacolo italiano, la vita del grande drammaturgo siciliano sviscerata e raccontata come mai prima d’ora. Trama: 1934; durante il viaggio in treno verso Stoccolma per ritirare il premio Nobel alla Letteratura, Luigi Pirandello ripensa alla sua vita e alle figure care che lo hanno anche ispirato per i drammi: la malattia mentale della moglie Antonietta, il legame difficile, ma comunque amorevole, con i figli Stefano, Lietta e Fausto, il felice rapporto professionale (e forse sentimentale) con Marta Abba, prima attrice della sua compagnia, il successo e la consacrazione internazionale.
Sceneggiando (insieme all’autore) il romanzo Il gioco delle parti di Matteo Collura, Michele Placido (che interpreta Saul Colin, l’agente di Pirandello) dirige ricostruendo con una narrazione a scatole cinesi un’ampia fetta della vita dello scrittore coprente gli anni che vanno dal 1918 al 1936, e terminando con un cupio dissolvi come auspicato dallo stesso Pirandello nelle sue ultime volontà.
Pur con qualche difetto, riesce tutto sommato a rendere un buon omaggio ad una figura cardine del Novecento letterario ed è evidente la sua smodata ammirazione nei confronti del padre dei sei personaggi in cerca d’autore, che spesso ha portato in teatro e a cui vorrebbe palesemente somigliare. Sarebbe stato meglio se avesse concesso più spazio al tormento creativo del drammaturgo, invece ci si riduce a qualche scena in cui la pazzia della consorte o il tentato suicidio della figlia avrebbero ispirato gli atti delle sue opere teatrali migliori. La confezione d’epoca è sontuosa, molto bella la fotografia di Michele D’Attanasio che dona corpo all’immaginazione e alle visioni (appunto) del personaggio Pirandello, presentato come un sognatore a cui la vita ha donato sia grandi soddisfazioni che profondi dolori e angosce, cui lo scrittore reagiva lavorando ossessivamente o abbandonandosi a lunghe elucubrazioni sul senso della vita. Di contro, Placido, come in altri suoi lavori, esalta la nostalgia dell’innocenza e i desideri di fuga di Pirandello sublimando la figura di Marta Abba, talmente gioviale e strabordante di vita da alimentare il talento e la forza immaginifica del drammaturgo: il film si limita ad ipotizzare che non ci sia stata alcuna relazione tra i due, ma più che altro un’infatuazione senile per una giovane ed esuberante donna, come d’altronde è riscontrabile nella realtà nonostante il forte legame professionale e umano che li univa (ed una corrispondenza epistolare durata per tutta la vita).
Ripetiamo, qualche concessione in più all’elaborazione artistica di Pirandello non avrebbe guastato, anche perché è un po’ difficile credere che la matrice della produzione del drammaturgo fosse unicamente il contrastato contesto familiare. All’attivo, abbiamo un’ottima prova di tutti gli attori: Bentivoglio stupefacente nella sua immedesimazione totale nel grande autore e nelle sue nevrosi, mentre una nota di merito la guadagna Federica Vincenti che sorprende impersonificando Marta Abba, così gioiosa da risultare fuori posto persino nei sogni cupi di Pirandello. Ogni tanto c’è qualche avvenimento romanzato (Sei personaggi in cerca d’autore non fu contestato da tutto il pubblico alla prima, anzi ci fu un vero scontro fisico tra ammiratori e detrattori di Pirandello, mentre lo scrittore non fu mai preso in considerazione per collaborare in Germania con Murnau), e il film lo promuoviamo per la stima incondizionata che trasuda verso un autore davvero eterno, forse addirittura oggi più di allora: eh sì, noi uomini dei primi anni Duemila, con le nostre nevrosi, ansie e crisi d’identità abissali siamo un po’ tutti figli di Pirandello, cantore dei dubbi e incertezze della contemporaneità.

“Reading Lolita in Tehran”: botte di cultura agli ayatollah

La cultura può rivelarsi un potente strumento di riscatto: è il tema fondante del secondo film che abbiamo visto oggi, Reading Lolita in Tehran (tr., leggere Lolita a Teheran) di Eran Riklis, produzione italo-israeliana tratta dall’omonimo romanzo autobiografico di Azar Nafisi, che approderà nelle sale il 21 novembre: lo scontro tra i libri, per la maggior parte di importazione occidentale e dunque proibiti dal regime iraniano, e la Repubblica Islamica narrato nell’arco di vent’anni, via via sempre più aspro e soffocante. Trama: 1979; all’indomani della presa al potere di Khomeini, Azar, insegnante di letteratura inglese negli Stati Uniti, torna assieme al marito a Teheran; assunta alla locale università, sarà gradualmente ostacolata dalle istituzioni universitarie a causa dei testi proposti, colpiti dalla censura, nonché dagli studenti sempre più radicalizzati. Per Azar l’unica soluzione sarà organizzare delle lezioni clandestine a casa sua aperte alle studentesse.
Suddiviso in quattro capitoli e con salti avanti e indietro nel tempo (1979, 1995, poi 1988, 1996 ed infine 2003) ordinati attraverso quel montaggio alternato su cui mi sono già soffermato nei giorni scorsi e del quale non ho alcuna intenzione di tornarci sopra perché mi ha un po’ stancato (sarà emozionante, tutto quello che volete, ma inizia a mostrare la corda) il film (non ho letto il romanzo, perciò non so se capita anche lì) battezza ogni blocco narrativo con il titolo di uno dei libri preferiti dalla protagonista adeguandoli alla tematica trattata: Il grande Gatsby alla pesante critica degli studenti musulmani al corrotto sistema americano e occidentale; Lolita alla presa di coscienza delle giovani iraniane sulla loro condizione; Daisy Miller ai rapporti sociali e sentimentali che dovrebbero avere i due sessi; Orgoglio e Pregiudizio alla presa di posizione della protagonista che la porterà al ritorno, con tutta la famiglia, negli Stati Uniti.
Come si intuisce dal nostro riassunto stringato, l’importanza del romanzo Lolita nel film risiede nella sua reinterpretazione associata alla situazione femminile iraniana: ogni libro letto e commentato da Azar non fa che incrementare ulteriormente una presa di coscienza, un desiderio rimosso oppure una riflessione del vissuto personale. Potrebbe trattarsi, ad una visione superficiale, della solita favola femminista che cambia le cose, invece la nostra protagonista (come accaduto nella realtà) non cerca affatto la rivoluzione, ma vuole solo mantenere viva nelle sue studentesse la consapevolezza di poter davvero vivere l’esistenza in maniera degna ed esemplare, e molte delle ragazze metteranno in pratica quest’insegnamento senza desiderare chissà quale sconvolgimento sociale perché amano veramente il proprio Paese e vogliono riformare la società patriarcale senza che questo significhi estromettere per forza tutti gli uomini dalla loro vita. Infatti, il film (come il romanzo) sottopone ad una critica feroce un sistema come quello della Repubblica Islamica che fagocita non solo i corpi delle donne imponendo l’hjab, ma anche le menti degli uomini (significativa la scena dello studente che si dà fuoco all’università per aver compreso, dopo l’arruolamento durante la guerra Iran-Iraq, che la guerra non serve a nulla e che gli ayatollah mentono al popolo) facendo loro credere che non esista altro modo di vivere al di fuori di quello propagandato dalle autorità. In definitiva, intenso e emozionante, e superlativo il cast con in testa la protagonista Golshifteh Farahani. Tra i produttori figura Santo Versace.