Terzo giorno del Rome Film Fest 2024: oggi si fanno le cose in grande, è infatti la volta di Viggo Mortensen che, oltre a presentare la sua ultima fatica da regista (e attore protagonista), riceverà il Premio alla Carriera, mentre è arrivato il momento per noi di visionare anche le serie tv selezionate alla kermesse, incominciando con la molto criticata (ancora prima di venire trasmessa) Avetrana, qui non è Hollywood.

“Avetrana”, una piacevole sorpresa

In onda su Disney Plus dal prossimo 25 ottobre e candidata alla sezione “FreeStyle“, Avetrana è diretta dal regista pugliese Pippo Mezzapesa, fattosi notare qualche anno fa con l’interessante Il bene mio e per aver fatto esordire come attrice la cantante Elodie in Ti mangio il cuore (se volete googolare quest’ultimo, fate prima a digitare “il film di Elodie”, come tale viene chiamato dai più). Abbiamo avuto modo di assistere solo ai primi due episodi (su quattro), ma è sufficiente per affermare che si tratta di un prodotto di pregevole fattura, perciò tutte le polemiche e le accuse di cinica spettacolarizzazione ci appaiono leggermente pretestuose.
Trama: il 26 agosto 2010, Sarah Scazzi, 15enne di Avetrana (Taranto) scompare improvvisamente. Dopo un mese di intense ricerche, il corpo della giovanissima fu rinvenuto all’interno di un pozzo in aperta campagna. Ma ciò su cui si focalizza la serie è l’orripilante tv show che sorgerà attorno alla vicenda. Ogni episodio è narrato secondo il punto di vista dei principali protagonisti e i primi due si incentrano proprio su Sarah e la cugina Sabrina Misseri (tutt’ora all’ergastolo per il delitto).
La storia vera (ricostruita, secondo la didascalia iniziale, basandosi sugli stralci investigativi e i documenti giudiziari) che tutti ricordiamo perfettamente a memoria, è una mera scusa del regista per imbastire una vera e propria “pornografia dell’orrore”, che proprio Avetrana ha contribuito a far nascere in Italia, con il suo stile diretto e grottesco già adoperato per le prime pellicole. Il ritratto della provincia tarantina (e, sottinteso, quella italiana tutta) come fucina di invidie, rancori, frustrazioni, ignoranza ed impossibili sogni di fuga alimentati dall’onnipresente tv, forse non sembrerà originale, ma Mezzapesa ne approfitta per infilarci le sue personali riflessioni sulla società contadina pugliese, divisa tra rituali arcaici ed una presunta modernità percepita attraverso il telefonino di ultima generazione o l’uso dello slang di derivazione televisiva e social.
E, nel primo episodio, fa di Sarah una vittima sacrificale di questa società orrida e retrograda, nonché di un contesto familiare complicato, a voler essere buoni: i parenti Misseri con palesi problemi d’inserimento sociale, la madre fanatica religiosa, si salvano solo il padre e il fratello. Il regista però calca un po’ la mano, enfatizzando la frustrazione di Sarah (immatura, sola, né più né meno dotata degli altri, ma semplicemente bisognosa di affetto) con toni ed accenti quasi horror per sottolineare anche l’odio stupido e feroce che Sabrina prova verso di lei; inserti non richiesti, perché sembrano usare quella stessa spettacolarizzazione che invece la serie critica, e sono alla base delle polemiche divampate nelle scorse settimane.
Ma il plot diventa imprevedibilmente più interessante nel secondo episodio, che sposa lo sguardo di Sabrina e filma a 360° il disgustoso Grande Fratello che scaturì dal delitto. E si rivela una piacevolissima sorpresa: l’attrice Giulia Perulli è ottima nella sua metamorfosi di Sabrina Misseri, consegnandoci il personaggio di una ragazzotta di provincia odiosa e cattiva, ossessionata dal proprio aspetto fisico, egoista, vittima delle sue nevrosi ed instabile mentalmente, innamorata ridicola di Ivano Russo (presentato come un bellimbusto di paese senz’arte né arte, e proprio questo ritratto rende l’omicidio di Sarah ancora più rivoltante). In più, c’è anche quello che a Mezzapesa riesce meglio: la descrizione corale di una collettività marcia e cinica sotto la patina di buonismo, tutti indissolubilmente complici di un sistema mediatico motore inconscio della vicenda (agghiaccianti le sequenze delle guide che portano i turisti sui luoghi della tragedia o il piano sequenza dei paesani disposti a tutto pur di mettersi in mostra): sono i falsi miti del tubo catodico ad illudere Sarah, è la tv con i suoi canoni estetici di plastica a far credere a Sabrina di essere inadeguata in tutto (nonché il suo lavoro di estetista che la porta costantemente a confrontarsi con i corpi delle altre) e a pavoneggiarsi con gli inquietanti appelli, divorata dal rimorso nonostante il rancore radicato nell’anima e i patetici tentativi di depistaggio. Ci auguriamo che anche gli altri due episodi continuino lungo la strada di questo registro narrativo.

“The Dead don’t hurt”, femminista poco woke (per fortuna)

Un’altra morte forza propulsiva di tutta una storia la ritroviamo nel secondo film da regista dell’attore Mortensen, The dead don’t hurt (tr., i morti non soffrono). E’ un western che sicuramente piacerà agli appassionati, selezionato nell’ambito della categoria “Grand Public”, con una robusta venatura femminista e in uscita nelle sale il prossimo 24 ottobre. Trama: negli anni a cavallo della guerra di Secessione, il cowboy Olsen (lo stesso Viggo) di origini danesi s’innamora, ricambiato, della franco canadese Vivienne (Vicky Krieps, brava). I due iniziano a costruirsi un futuro insieme in una squallida e corrotta cittadina del Nevada, in cui Vivienne subirà le vessazioni (e lo stupro) da parte del figlio psicopatico del notabile locale mentre il compagno è a combattere nell’esercito. Sarà l’inizio di un’escalation di sangue e vendette in un contesto terribile da cui la morte sembra essere l’unica fuga (da qui il titolo).
Cinematograficamente parlando, la pellicola presenta una struttura alterna con frequenti flashback e momenti, apparentemente scollegati, che piano piano costruiscono un puzzle confluente poi nella resa dei conti grandguignolesca. Mortensen dirige con polso e precisione, regalandoci anche paesaggi stupendi e sequenze toccanti. Tutta la parte della vendetta segue un binario tradizionale e ordinario (obbedendo senza problemi alle regole e i cliché del genere), pertanto le scene migliori sono contenute nei flashback con il ritratto a tutto tondo di un personaggio non stereotipato e femminista. Vivienne è una donna forte e determinata, obbligata a crescere in fretta dopo la morte atroce del padre, abituata a fare affidamento solo su sé stessa (“non ho mai voluto essere salvata”), gran lavoratrice indipendente e disposta ad amare Olsen non perché lui si prenda cura della donna, ma per più semplici affinità elettive (“volevo un uomo forte come me al mio fianco”). Proprio la sua forza d’animo affascina gli uomini, primo fra tutti ovviamente Olsen, che la ama e la rispetta perché non ha mai sognato una mogliettina servizievole e muta.
Diverse tematiche femministe sono evidenti (Vivienne adora la figura di Giovanna D’Arco, vista in un sogno ricorrente che si rivelerà una sublimazione della figura del padre, sa usare la pistola e non ha bisogno di nessuno per andare avanti); certo, abbiamo una certa (e forzata) concessione al woke, come ormai d’obbligo in buona parte del cinema statunitense, ma minimale, che non guasta o appesantisce il racconto; anzi, Mortensen resiste alla tentazione di fare di Vivienne un’eroina stucchevole e senza macchia, che persino rispetto al solito (stereotipato) rosario di sventure reagisce sempre con sicurezza e fermezza, ma sottolinea semplicemente (e come già hanno fatto altri) come quelli fossero contesti selvaggi ed anarchici, duri e con concetto della legge molto flebile (come mostra il processo iniziale che condanna a morte un innocente), in cui anche le donne dovevano adeguarsi a saper maneggiare le armi oppure a adoperare un linguaggio volgare per sopravvivere e la cultura era percepita come un mezzo (non un diletto) per sperare di elevarsi un po’ socialmente. La pellicola non si concede neppure troppe concessioni sentimentali (a dispetto del profondo legame amoroso dei due protagonisti), le scene violente ci sono e si rivelano necessarie, ma il racconto scorre disinvolto senza scossoni o rallentamenti (Aragorn firma anche la sceneggiatura) e si lascia guardare mantenendo alta l’attenzione.