Questa mattina, alle prime luci dell’alba, in 16 province del territorio nazionale, i Carabinieri del Gruppo di Gioia Tauro, a conclusione di indagini coordinate dalla Procura della Repubblica di Reggio Calabria – Direzione Distrettuale Antimafia, diretta dal Procuratore Giovanni Bombardieri, hanno dato esecuzione a un’ordinanza di custodia cautelare dell’Ufficio GIP del Tribunale di Reggio Calabria nei confronti di 65 soggetti – 47 in carcere, 16 agli arresti domiciliari e 2 sottoposti all’obbligo di dimora – ritenuti responsabili – in particolare – di associazione di tipo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa, porto e detenzione di armi comuni e da guerra, estorsioni, usura e danneggiamenti aggravati dalle finalità mafiose, riciclaggio e autoriciclaggio, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti.
Il provvedimento dell’Autorità Giudiziaria ha determinato, inoltre, il sequestro preventivo di una ditta attiva nel settore dello sfruttamento delle risorse boschive (taglio, trasporto e trasformazione del legno), utilizzata per agevolare le attività criminali della cosca, il cui valore complessivo è stato stimato in 700.000,00 euro. Contestualmente, il Raggruppamento Operativo Speciale Carabinieri unitamente al Servizio Centrale d’Investigazione sulla Criminalità Organizzata e al G.I.C.O. del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria di Brescia della Guardia di Finanza stanno eseguendo una Ordinanza applicativa di misure cautelari emessa dall’Ufficio GIP del Tribunale di Brescia, su richiesta della Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia di Brescia diretta dal Procuratore Francesco Prete, a carico di 13 soggetti indagati a vario titolo per i delitti, tra gli altri, di associazione mafiosa, concorso esterno in associazione mafiosa, tentata estorsione aggravata dalle modalità mafiose e associazione per delinquere finalizzata alla commissione di reati tributari e in materia di lavoro (imputazione riguardante 6 soggetti). Inoltre, è stata data esecuzione ad un provvedimento di sequestro preventivo di beni e disponibilità finanziarie dell’importo di oltre 4 milioni di euro, quale profitto dei predetti delitti in materia di imposte sui redditi ed I.V.A..
L’indagine costituisce esempio di grande collaborazione e coordinamento delle Direzioni Distrettuali Antimafia di Reggio Calabria e di Brescia sotto l’egida della Direzione Nazionale Antimafia e Antiterrorismo, che hanno consentito alle due Procure, ciascuno per gli ambiti di propria competenza, di verificare, allo stato degli atti e fatte salve le future valutazioni di merito, i nuovi equilibri della cosca Bellocco e le proiezioni di questa cosca di ‘ndrangheta nel Nord Italia. In particolare, per quanto riguarda l’indagine reggina, i Carabinieri del Nucleo Investigativo del Gruppo di Gioia Tauro hanno ricostruito gli interessi della «cosca Bellocco» di Rosarno, una delle realtà più note della ‘ndrangheta, attiva nel narcotraffico, nel traffico delle armi, nelle estorsioni e nel controllo delle attività commerciali e imprenditoriali della Piana di Gioia Tauro, con particolare riferimento ai territori dei Comuni di Rosarno e San Ferdinando.
L’operazione, convenzionalmente denominata «Blu Notte», avviata dal settembre 2019 e conclusasi ad agosto 2020, ha delineato la struttura organizzativa della consorteria ai vertici della «società di ‘ndrangheta» di Rosarno, che vanta interessi in molte zone del Paese e che può contare su importanti ramificazioni all’estero.
Una indagine che, nel proprio sviluppo, ha permesso in primo luogo di individuare il cambio al vertice della cosca.
Per quasi 50 anni, infatti, la leadership della «cosca Bellocco» era stata riconosciuta al vecchio patriarca Bellocco Umberto classe ‘37, alias «Assi I Mazzi», deceduto il 22 ottobre 2022, al quale viene ricondotta anche la nascita della Sacra Corona Unita pugliese – fatta risalire alla notte di Natale del 1981 all’interno del carcere di Bari. Nelle intercettazioni captate dai Carabinieri viene registrato il “passaggio di mano” all’omonimo nipote Bellocco Umberto classe ‘83, alias «Chiacchera», figlio di Bellocco Giuseppe classe ‘48, che ha dimostrato di avere la completa gestione del sodalizio e il conseguente controllo di tutti i consociati. Umberto, fratello di Bellocco Domenico, classe ‘77, detto anche «Mico u Lungu», dà prova di essere un leader temuto: le persone ammesse a confrontarsi con lui hanno esternato sempre atteggiamenti ossequiosi ed accondiscendenti, dimostrando il loro assoggettamento.
Ed è ancora lui che, in continuità con il pensiero del proprio predecessore (come rilevato nel corso dell’indagine Sant’Anna del 2014), dà prova di essere determinato a far diventare la sua associazione dominante rispetto alle altre. L’attività di polizia giudiziaria ha permesso, inoltre, di restituire un quadro completo sugli elementi strutturali della «cosca Bellocco», che costituiscono anche la spina dorsale della «Società di ‘ndrangheta di Rosarno», le cui relazioni hanno dimostrato l’operatività delle locali attive nei Comuni di Giffone (RC) e Laureana di Borrello (RC). Una precisa ricostruzione delle cariche e dei conseguenti compiti affidati ai numerosi affiliati orientati alla realizzazione del programma criminale, la cui attuazione pratica ha spaziato dalle estorsioni al traffico degli stupefacenti, dalla gestione delle c.d. guardianie alla spartizione degli interessi sul territorio e così via. Ruoli che hanno contemplato l’uso delle armi ed una particolare disinvoltura nell’effettuare i danneggiamenti verso i soggetti più riluttanti a sottomettersi alle imposizioni dell’organizzazione. L’ascesa del nuovo vertice della cosca continua anche nell’ambito carcerario, circuito nel quale vengono rilevate – con il fondamentale contributo del Nucleo Investigativo Centrale della Polizia Penitenziaria – la posizione di primazia del Bellocco tra i ristretti del carcere di Lanciano (CH), intessendo alleanze trasversali con altre potenti organizzazioni criminali operanti su tutto il territorio nazionale.
Lo stato di reclusione non ha impedito, infatti, a Umberto Bellocco di partecipare attivamente alle dinamiche criminali che hanno riguardato il sodalizio. Un aspetto reso possibile dalla detenzione illecita di telefoni cellulari, il cui approvvigionamento era favorito dal supporto di altri detenuti e dai familiari di questi, per lo più semiliberi e/o ammessi ai colloqui. Con questi espedienti il detenuto, dal carcere abruzzese, ha potuto partecipare ai summit mafiosi, potendo espletare tutte quelle funzioni che gli sono state riconosciute in ragione del ruolo di capocosca. In tale modo le conversazioni con i soggetti ammessi a confrontarsi con il boss sono state utilizzate come strumento di persuasione, anche nei confronti di altri soggetti appartenenti alla ‘ndrangheta. Gli approfondimenti investigativi hanno permesso di accertare, tra le altre cose, anche le responsabilità dei pregiudicati che hanno costituito la filiera necessaria a rifornire il Bellocco dei microtelefoni cellulari, delle Sim-card e delle relative ricariche, strumenti indispensabili per la direzione “da remoto” della «cosca Bellocco».
È risultato possibile documentare, ulteriormente, l’affiliazione di due nuovi consociati ed i conseguenti festeggiamenti, nonostante alcune frizioni che minavano gli equilibri interni, per l’ingresso nell’«onorata società» dei “nuovi arrivati”. Singolare è stato il brindisi con il quale un anziano della consorteria, davanti ai nuovi adepti ed agli alti ranghi della cosca, ha voluto esaltare quel momento di vita associativa pronunciando la frase: «E’ cadda… è fridda… e cala comu nenti, a saluti nostra e di novi componenti». Affiliazioni effettuate con l’avallo di un altro esponente di vertice recluso nel carcere di Saluzzo (CN), il cui benestare è stato concesso attraverso l’utilizzo di altro telefono detenuto in violazione delle norme e di uno degli esponenti della cosca Bellocco riconducibile al ramo dei «Testazza». Il tutto nell’ottica di partecipare il concetto unitario di cosca, che implicitamente ha amplificato la forza di intimidazione, creando le condizioni di assoggettamento delle popolazioni e ponendo le basi per stabilire quel rapporto di sudditanza psicologica posto a fondamenta delle imposizioni mafiose. Tra le alleanze maturate nel circuito penitenziario spicca la stretta collaborazione tra gli esponenti della «cosca Bellocco» e quelli del «clan Spada» di Ostia (RM), alcuni dei quali destinatari delle misure cautelari. In particolare, l’accordo stretto tra gli esponenti dei due clan, oltre a scandire le gerarchie criminali all’interno del penitenziario, ha riguardato i traffici di cocaina effettuati dalla Calabria verso il litorale romano e la risoluzione di situazioni conflittuali tra gli Spada e alcuni calabresi titolari di attività commerciali nelle aree urbane di Ostia ed Anzio.
Altro settore di importanza strategica è risultato essere quello della spartizione dei proventi relativi allo sfruttamento delle risorse boschive. Si riporta a tal proposito, una citazione emersa dall’attività d’indagine, che dimostra come i contratti per lo sfruttamento delle risorse montane venissero stabiliti nella sede operativa dei Bellocco: «I contratti delle montagne o si fanno in questa casa o se li fanno a Laureana, siccome io sono delegato pure da quell’altri si fanno in questa casa». In tale ambito è stato possibile attribuire la «competenza mafiosa» sulle aree montane ricomprese tra il Comune di Laureana di Borrello e quello di Giffone, nonché le relative prerogative di esclusivo appannaggio dei sodalizi Bellocco e Lamari, attuate in forza degli accordi stabiliti circa venti anni prima dagli storici esponenti Bellocco Giuseppe classe ‘48 e Lamari Carmelo. Delle imposizioni criminali durate anni ma che via via sono diventate sempre meno tollerate degli esponenti della locale di Giffone. Le rivendicazioni di questi sono iniziate nel periodo in cui erano stati contemporaneamente latitanti i due boss e la questione mafiosa afferente alla gestione delle montagne era stata demandata, in funzione supplente, ad esponente di spicco della mafia [odierno destinatario della misura cautelare]. Gli strascichi della controversia sulla spartizione hanno comportato dei fortissimi momenti di tensione, tanto che durante un summit svoltosi all’interno di un’azienda agricola di Rosarno, la situazione sembrava destinata a degenerare nello scontro armato. Un potenziale eccidio scongiurato dall’intervento effettuato, in diretta dal carcere, dal giovane Bellocco Umberto, che era solito predicare l’unità tra le diverse anime della ‘ndrangheta e la pace per tutti i consociati, che era aduso definire «cristiani».
La strategia dei Bellocco rispetto alle altre consorterie restituisce un quadro di sostanziale cooperazione criminale, in un regime di reciproci vantaggi.
Infatti, con l’incremento esponenziale dei traffici degli stupefacenti le articolazioni localmente attive della ‘ndrangheta non hanno avuto più l’esigenza di contendersi la spartizione del territorio ma, anzi, hanno sfruttato la federazione con le altre associazioni per dividere i rischi d’impresa e ridurre gli sforzi economici per l’attuazione delle iniziative criminali. I Bellocco, oltre a condurre una politica criminale attenta, specie nei confronti delle altre consorterie a loro storicamente alleate, hanno creato le condizioni per realizzare una serie di matrimoni tra i propri esponenti e quelli della cosca Pesce, in modo da rafforzare i rapporti relazionali tra le due espressioni di criminalità organizzata ritenute tra le più influenti del mandamento tirrenico della Provincia di Reggio Calabria. Ragione per la quale, in alcune fasi dell’indagine, gli esponenti dei Bellocco hanno apertamente manifestato la concreta possibilità di ottenere il sostegno anche dei vertici della cosca Pesce, dando prova di essere supportati, oltre che da questi ultimi, anche da altre realtà di pari livello criminale della Piana di Gioia Tauro.
Moltissimi sono i summit di mafia censiti, alcuni necessari all’attuazione del programma criminale della cosca, che generalmente avvenivano all’interno dell’abitazione della sorella di Bellocco Umberto e quelli, ben più complessi, organizzati nelle aziende agrumicole di Rosarno, dove venivano regolate le controversie con gli altri esponenti della ‘ndrangheta e dove gli incontri venivano pianificati nel dettaglio, tanto che ad alcuni soggetti armati della cosca veniva dato il compito di appostarsi e occuparsi di determinati settori di tiro, con l’intento di prevenire e reprimere, ogni sorta di pericolo che potesse promanare dalla controparte. Ai summit era solito prendere parte, in diretta, anche il boss detenuto dal carcere, che con la propria presenza, «partecipata» a distanza, era naturalmente portato ad irretire le iniziative dei convenuti.
Il ricorso all’intimidazione ed alla sopraffazione, con l’invasione pervasiva delle attività economiche e produttive, è stato rilevato in maniera costante nelle diverse fasi dell’indagine, permettendo di apprezzare come questo aspetto continui ad incidere sulle potenzialità di sviluppo del territorio.
Gli esponenti della consorteria hanno attuato un’opprimente pressione sulle attività economiche della zona, con richieste estorsive verso i titolari di molte attività economiche. Imposizioni che perduravano da anni e che erano solite aumentate in corrispondenza delle trasferte per i colloqui con i detenuti, dando di nuovo corso alla più ampia gestione della dinamica mafiosa della «guardiania», esclusivamente nell’intento di far sentire la presenza degli esponenti mafiosi nella zona.
Un controllo diffuso delle campagne, attuato attraverso persone incaricate di «farsi vedere», esigendo pagamenti che variavano in base all’estensione del fondo posseduto e ai quali dovevano sottostare tutti, anche se formalmente affiliati alla ‘ndrangheta. In caso di furti e danneggiamenti attuati nei confronti di soggetti più riluttanti ad assecondare tali pretese, ai proprietari dei fondi era imposto di rivolgersi ai rappresentanti della cosca: in sintesi, un tentativo di agire in surroga agli Organi dello Stato. Inoltre, i vertici della famiglia mafiosa erano riusciti a stabilire dei rapporti con alcuni imprenditori che ricercavano la loro copertura, stabilendo un regime falsato dove, alle corresponsioni economiche, conseguiva la possibilità di operare in ambiti di concorrenza alterata.
Le investigazioni, hanno permesso oltre tutto di riscontrare anche forti pressioni poste ad un medico da parte di un esponente della consorteria, al fine di ottenere certificazioni che attestavano false patologie, utilizzate per ottenere permessi medici rispetto alla sottoposizione agli arresti domiciliari, ed effettuare, grazie all’ottenimento del beneficio, incontri con altri esponenti mafiosi o attuare azioni delittuose, oltre che per costituire degli alibi spendibili all’occorrenza.
È stata per di più evidenziata, la persistenza di una corrente interna alla «cosca Bellocco», in contrasto con i vertici, solitamente indicata con il termine denigratorio degli «scissionisti».
Le intemperanze di questa fazione sono state represse dagli interventi risoluti di Umberto Bellocco, «nell’ambito di quelle che potremmo definire le regole organizzative e precettive in cui si sostanziava l’affectio societatis». Inoltre, per come accertato, i proventi dei delitti finivano nella «cassa comune» della cosca, custodita da una donna appartenente al sodalizio, la cui gestione è stata organizzata in maniera oculata, sia per il sostentamento dei consociati reclusi che per l’attuazione del programma criminale. Consistente e diversificata è risultata anche la disponibilità di armi in capo all’aggregato di criminalità organizzata in questione, che venivano solitamente distribuite ai consociati in base alle contingenze. In diverse circostanze gli appartenenti alla cosca, hanno sottolineato che, in caso di necessità, non avrebbero esitato ad utilizzare le armi per uccidere.
Trattandosi di provvedimento in fase di indagini preliminari, rimangono salve le successive determinazioni in fase processuale.