“Non c’è nulla al mondo più forte di una buona storia“. La citazione, pronunciata in un momento decisivo dal “folletto” Tyrion Lannister durante il finale di stagione di “Game of Thrones“, avrebbe dovuto profilarsi come una sorta di profezia benevola per lo show fantasy targato HBO ed ideato da David Benioff e D.B. Weiss, inizialmente ispirato al bestseller “Cronache del Ghiaccio e del Fuoco” di George R. R. Martin. L’ultima puntata di una delle serie cult dell’ultimo decennio, che ha raccolto in ben otto anni una nutrita schiera di fan affascinati dalle battaglie tra diverse dinastie alla conquista del fantomatico trono di spade in quel di Westeros, ha contribuito in realtà ad alimentare l’astio in una buona fetta di fan. Le ultime due stagioni di “Game of Thrones” sono quelle che hanno generato maggiore perplessità, anche perché hanno attinto ben poco dall’opera originaria. Mentre Martin cercava di terminare i nuovi volumi della saga letteraria (notizie incerte sull’eventuale ultimazione di ben due romanzi sono trapelate, guarda caso, a ridosso della messa in onda del finale di stagione), gli sceneggiatori hanno cercato di mantenere una certa continuità con l’opera d’origine, non riuscendo tuttavia a portare a casa un risultato totalmente soddisfacente. In particolare, l’ottava ed ultima stagione di “Game of Thrones” – composta da soli sei episodi di maggiore durata rispetto alle puntate delle passate stagioni – ha lasciato basiti i telespettatori, che l’hanno giudicata sin troppo frettolosa, carica di “fan service” tanto inutili ai fini della trama quanto, per certi versi, grotteschi e piuttosto carente per quanto riguarda la caratterizzazione di alcuni personaggi. Entriamo nel dettaglio (ATTENZIONE: potrebbero essere presenti spoiler sull’ultima puntata).
Il gran finale
L’ultima puntata di “Game of Thrones”, dal titolo “The Iron Throne“, chiude il cerchio sulle vicende che hanno visto coinvolti i protagonisti della serie TV, con un finale tutto sommato scontato e che potrebbe lasciare una sensazione di incompiuta a molti patiti dello show in onda su Sky Atlantic. Assistiamo al totale declino mentale della “madre dei draghi”, quella Daenerys Targaryen che sin dalle prime stagioni era stata eletta a paladina dei popoli liberi, la “distruttrice di catene” a sua volta resa prigioniera da un cappio tanto seducente quanto pericoloso: il potere.
Una delle maggiori pecche che i fan di “Game of Thrones” non perdonano agli sceneggiatori è stata proprio la virata “folle” della bionda regina, ben evidenziata anche da contrasti cromatici nell’abbigliamento (Daenerys era solita portare abiti azzurri o comunque chiari, mentre in quest’ultima puntata veste di nero) e nella capigliatura (la bionda chioma della giovane erede di casa Targaryen vira ora su tonalità più “albine“, più simili a quelli del truce fratello di lei, Viserys). La donna, divenuta ora una spietata dittatrice, non esita a condannare ad una fine orrenda Tyrion Lannister, ex Primo Cavaliere e fidato consigliere della sovrana, ribellatosi tardivamente a seguito della dipartita di buona fetta del popolo di Approdo del Re e, soprattutto, dei suoi fratelli Jaime e Cersei.
Alla dilagante follia della “legittima” erede al trono di spade si contrappone la quasi nullità caratteriale di Jon Snow, personaggio non propriamente amato dalla sottoscritta, che potremmo registrare alla voce “non pervenuto” lungo tutto l’arco narrativo dell’ottava stagione. Il nipote di Daenerys sarà convinto da Tyrion a commettere il delitto più doloroso, ed insieme il più significativo atto di liberazione per il popolo di Westeros, delitto che però non resterà impunito. Jon ritornerà a condurre la vita da esiliato per ordine del nuovo re, quel Bran Stark il cui carisma non è esattamente paragonabile a quello di una qualsivoglia bandiera del calcio italiano, ma che non è secondo a nessuno in fatto di capacità “occulte” e politiche. Il finale di stagione ci regala così quella che potremmo definire una “vittoria di Pirro” a tutti gli effetti: Jon Snow torna alla Barriera, ritrova il fidato amico Tormund e si muove con i Bruti verso la foresta; Arya Stark diventa una sorta di Cristoforo Colombo al femminile e decide di vagare in mare alla ricerca di terre sconosciute; Sansa Stark diviene regina dei quel Nord che riesce a rendere indipendente, portando a segno un risultato che la Lega Nord agogna da anni immemori! Mentre una buona fetta degli Stark abbandona il palazzo ed i suoi giochi di potere, al fianco del “re corvo” Bran restano Tyrion (“condannato” a rivestire i panni di Primo Cavaliere) ed una nutrita schiera di “comprimari”, vero cuore pulsante di “Game of Thrones”: Brienne, Bronn, Davos e Samwell (quest’ultimo rassomigliante ad una copia mal riuscita di Samvise Gamgee, amico fidato di Frodo ne “Il Signore degli Anelli“), che ci regalano l’ultimo siparietto della serie.
Una stagione agrodolce
Il paragone tra i due Sam delle altrettante celeberrime saghe fantasy non è l’unico parallelismo esistente tra la serie HBO e la trasposizione filmica targata Peter Jackson dell’opera di Tolkien. Un paragone, inutile dirlo, vinto a mani basse da “Il Signore degli Anelli“, specialmente nel parallelismo riscontrato da fan e critica tra il terzo episodio della stagione “The Long Night” e la battaglia al Fosso di Helm portata su grande schermo ne “Le Due Torri“, secondo capitolo della saga filmica di Jackson. La terza puntata, forse quella più degna di nota dell’ultima stagione di “Game of Thrones”, è stata oggetto di forti critiche. Al pathos sopraggiunto subito dopo la fine dell’episodio si sono aggiunte lamentele non solo legate all’eccessiva presenza di “nero” nella puntata (giustificata dagli sceneggiatori con la necessità di regalare realismo alla battaglia), ma anche alla fine “spicciola” riservata al Night King; la stessa celerità nei decessi viene riscontrata lungo tutta la stagione finale e colpisce protagonisti e comprimari di ben più ampio spessore rispetto ai “sopravvissuti”: Varys, Jaime e Cersei.
Il momento dell’eroe
Altra profonda pecca del lavoro della premiata ditta Weiss-Benioff riguarda la caratterizzazione dei personaggi ed alcune inutili storie amorose, talvolta fastidiose ai fini della trama. Se “Game of Thrones” non può essere considerata una copia carbone de “Il Signore degli Anelli” – specialmente nel lieto fine riservato al “ramingo” Aragorn e all’elfa Arwen – è indiscusso, tuttavia, il ruolo che le passioni hanno giocato nel corso di tutta l’opera televisiva.
Jamie e Cersei Lannister sono l’esempio perfetto di come un amore malato possa mettere a repentaglio tutto: progenie, reputazione, la vita stessa. Il momento amoroso riservato allo sterminatore di re e alla statuaria Brienne di Tarth era stato salutato calorosamente da una parte dei seguaci della serie; peccato che la “riabilitazione amorosa” del bel Jaime sia stata cancellata come un colpo di spugna nel penultimo episodio della stagione (“The Bells“), durante il quale il “leone” di casa Lannister sceglie di perire con l’amata-odiata gemella, sotto le rovine del palazzo che ha visto consumarsi i loro intrighi ed il loro amore incestuoso, con buona pace delle profezie tanto sbandierate alla vigilia di questo episodio. Un epilogo a dir poco immeritato per due tra gli antagonisti più complessi dello show, magistralmente interpretati da Nikolaj Coster-Waldau e Lena Headey.
Possiamo invece inserire nella categoria “fan service nudo e crudo” la passione consumata tra Arya e Gendry (sedotto e abbandonato dall’assassina di casa Stark, che preferisce andar per mari piuttosto che convolare a nozze con il povero erede legittimato della famiglia Baratheon) e la “love story” parentale tra Daenerys Targaryen e Jon Snow, che scoprirà essere il nipote della regina. A proposito di Snow, è necessario specificare che non rappresenta l’ideale eroico incarnato da Aragorn ne “Il Signore degli Anelli”: una lacuna forse non significativa per alcuni, ma in realtà importante, perché l’immobilismo del personaggio interpretato da Kit Harington non consente al pubblico una corretta immedesimazione, facendolo risultare “apatico” e pesante.
In conclusione, se volessimo dare un voto complessivo all’ultima stagione de “Il Trono di Spade”, potremmo dare un 6 politico, una sufficienza raggiunta dalla trasposizione del libro di Martin grazie al comparto scenografico e agli effetti speciali quasi sempre all’altezza delle aspettative, nonchè alla presenza di un cast corale di comprimari di altissima qualità. I buchi narrativi nella trama e le scelte legate alla sorte dei protagonisti, però, hanno trasformato un’opera pregevole in un telefilm tenuto in piedi solo da sanguinose e straordinarie battaglie, che lascia ai suoi fedelissimi telespettatori una sensazione di amaro in bocca impossibile da mandare via.