Un progetto urbanistico che diede tanto all’Italia e riaccese le speranze nel primissimo dopoguerra, un’utopia possibile che però è riuscita solo a metà. E’ il sunto di quanto illustrato oggi all’incontro “Ina Casa – Dal Cantiere alla Costruzione“, promosso dall’Associazione culturale “Anassilaos” di Reggio Calabria e tenutosi presso la libreria “Spazio Open“. L’iniziativa di edilizia popolare “Ina Casa“, avviata nel 1949 dall’allora governo Fanfani, nacque innanzitutto come risposta forte e risolutiva al grave problema abitativo italiano del primissimo Dopoguerra, dovuto ai bombardamenti che distrussero interi quartieri in diverse città lasciando tantissime famiglie senza casa.
Come ben narrato da Claudio Sergi, responsabile di Design ed Architettura dell’associazione, negli anni immediatamente successivi al 1945 molte persone dovettero adattarsi a trovare alloggio dove capitava, nelle cantine, nei sottoscala e persino nei luoghi più impensati, come i cunicoli e i locali delle terme di Caracalla a Roma, ad esempio.
Inutile dire che, a causa dell’enorme numero di sfollati, in quasi tutte le città iniziarono a verificarsi numerosi problemi di ordine pubblico, sovraffollamento, disperazione e addirittura di focolai epidemici; da queste emergenze nacque il progetto “Ina Casa”, che fu promulgato ed attuato dal 1949 al 1963. Il nome “Ina” è l’acronimo dell’Istituto Nazionale delle Assicurazioni: il disegno di legge approvato dal governo diede l’avvio alla costruzione di migliaia di centri residenziali lungo tutto lo Stivale, ma nacque da un curioso “impuntamento” da parte dell’Italia nei confronti degli Usa. Gli Alleati, infatti, con il famoso Piano Marshall non avevano come unica finalità quella di aiutare economicamente le Nazioni europee per risollevarsi dalla guerra, ma anche di assoggettarle gradualmente imponendo loro prodotti di prima necessità e simboli di benessere quali frigoriferi o televisori, esclusivamente di fattura americana. Il governo Fanfani si oppose sostenendo che l’Italia aveva per il momento bisogno di soldi e non di un benessere forzato ed effimero.
Fu così che anche il denaro ottenuto con il Piano Marshall servì a foraggiare il progetto “Ina Casa”, che ottenne inoltre finanziamenti derivati da piccole detrazioni fiscali dagli stipendi di tutti i cittadini. Per una volta, gli italiani contribuirono davvero alla realizzazione di un grande progetto pubblico. Tramite la proiezione di alcuni vecchi filmati anni ’50 provenienti dall’archivio dell'”Istituto Luce” e dalla “Settimana Incom”, Sergi ha mostrato quanto all’epoca la realizzazione e l’inaugurazione delle prime palazzine furono accolte con grande entusiasmo da tutta Italia, non solo per la graduale abolizione del problema dello sfollamento, ma anche perché l'”Ina Casa” fu la prima visibile prova che l’Italia si stava avviando verso la modernizzazione ed un concetto diverso del lavoro (almeno così si sperava): accrescere sempre più il numero degli alloggi popolari per attrarre più lavoratori e, di conseguenza, creare più occupazione.
Ma purtroppo, insieme al benessere, iniziarono ad arrivare i primi problemi; gli architetti ed i progettisti avevano immaginato non solo di dare la casa popolare ai lavoratori, ma anche di istituire degli enormi centri residenziali all’interno dei perimetri urbani, delle vere e proprie “città nelle città” dotate di ogni confort, esercizi commerciali e spazi dedicati al tempo libero, alla cultura, al dopolavoro o alla religione. Non avevano però tenuto conto delle speculazioni personali che sarebbero arrivate o dell’abusivismo edilizio, che proprio accodandosi al progetto urbanistico iniziò la sua rapida espansione in molte zone d’Italia.
E dopo il ’63, quelli che dovevano essere spazi di integrazione divennero invece centri di ghettizzazione, degrado e criminalità. Un vero peccato, se teniamo conto che il piano residenziale destò un grande interesse e stupore persino in Germania; gli edifici erano concepiti in modo che le famiglie fossero a proprio agio e con i servizi igienici garantiti, e furono accolti con ardore soprattutto in quelle grandi città in cui, per svariati motivi, vi erano delle forti emergenze abitative, come Torino, Roma e Napoli. Le palazzine spiccavano in mezzo al contesto cittadino non solo per lo stile architettonico semplice (“neorealista” era stato definito) o per i colori vivaci con cui spesso erano dipinte, ma anche per le caratteristiche maioliche (disegnate da artisti famosi) poste sulle loro facciate e che divennero presto il marchio di fabbrica del piano urbanistico; esse venivano affisse sui muri per testimoniare come quegli edifici fossero a norma con quanto previsto dal progetto. Insomma, si trattò di un sogno momentaneo, che però ebbe il merito di dare grande impulso all’imprenditoria residenziale, di cui uno dei massimi esponenti fu l’imprenditore romano-milanese Renzo Zingone, realizzatore di quella che fu considerata una rivoluzionaria cittadina-quartiere per lavoratori a misura d’uomo: Zingonia, in provincia di Bergamo, che però fu un trionfo di breve durata.