Trent’anni senza Sergio Leone che sembrano in realtà un secolo: così tanto ci manca una delle colonne portanti del nostro cinema, un gigante del senso dello spettacolo come pochi sono apparsi nella Settima Arte italiana. Immaginifico, possente, con un certo gusto per l’epica e l’immaginazione senza limiti: con queste tre parole si può definire l’intera opera filmica di Leone, che è sì un omaggio non tanto all’epopea western americana quanto allo stesso genere codificato e reso grande sullo schermo da registi come John Ford o Delmer Davies, ma che ad un certo punto ha provato a spaziare verso altri grandi generi del cinema made in Hollywood (quello classico ovviamente), ebbe un altro picco creativo però solo con “C’era una volta in America” (riflessione sui clichè e le vicende del genere gangster ai tempi del proibizionismo) e che sarebbe dovuto continuare almeno con il cinema bellico, dato che il regista morì proprio mentre stava preparando un film sull’assedio di Stalingrado. Sergio Leone può considerarsi il cantore del divertimento cinematografico puro, perché nei suoi film c’è proprio tutto: azione, ironia, commozione, musica coinvolgente (secondo Gianni Amelio, “musica da vedere”) e personaggi da scoprire a poco a poco.
Ma il romanaccio Sergio non era però un regista/intellettuale; no, lui univa la passione e l’amore per il cinema ad un certo gusto per il goliardico e lo sberleffo, raggiungendo risultati che altrove sarebbero stati strani o addirittura ridicoli, e prendendosi gioco di tutti coloro che ancora oggi si chiedono se nelle sue pellicole vi siano approfondimenti dei personaggi e delle situazioni oppure no. Io dico: da spettatori, fregatevene e godetevi solo l’azione filmica. D’altronde, lo stesso Leone non faceva nulla per infondere una qualche verità ai suoi personaggi, lasciando che fosse lo spettatore a decidere chi fossero veramente e cosa rappresentassero. E, ripetiamolo, forse ci ha sempre presi in giro regalandoci i suoi bei “giocattoloni” western costruiti benissimo e probabilmente senza una grande sostanza che lui stesso, in fondo, non avvertiva. Il suo cinema, dopotutto, cominciò con il ghigno accigliato di Clint Eastwood in “Per un pugno di dollari” e terminò con il misterioso sorriso inebetito di Robert De Niro in “C’era una volta in America”; un po’ come dire, “vi ho fregato, avete sempre cercato una profondità che non esiste”.
Infatti, pochi altri registi hanno lasciato un segno così profondo nella mia memoria come lui, e credo di parlare a nome di tutta la mia generazione; la mia fortuna è stata quella di avere un padre con un’innata (e direi quasi ossessiva) passione per i film western, americani e italiani, che verso gli undici-dodici anni iniziò a farmi visionare decine di west iniziando da quelli classici con John Wayne fino ad arrivare a quelli del Bel Paese, tra cui ovviamente quelli di Leone. E per me, abituato alle serie tipo “Rin Tin Tin” oppure “La casa nella prateria”, fu uno shock per diversi motivi. Il primo film di Sergio che vidi fu proprio il suo “primo” western in assoluto, “Per un pugno di dollari“, che guardai in preda ad una sorta di ansia continua. Quell’atmosfera cupa e mortifera (che verrà poi accentuata in altri spaghetti-western a partire da “Django”), lo sguardo puntuto e monocorde di Clint Eastwood (che addirittura scambiai per il cattivo), quel villaggio fantasma dove il vento la fa da padrone e i cavalli trasportano solo cadaveri, la violenza mostrata fin troppo realisticamente (non siamo ancora alle orecchie tagliate di “Django”, ma è comunque sconvolgente), il demoniaco Ramòn Rojo (interpretato dal superbo Gian Maria Volontè), che massacra centinaia di soldati a colpi di mitraglia con una vistosa espressione orgasmica sul viso, il massacro gratuito della famiglia Baxter con la casa data alle fiamme, il fuoco che illumina grottescamente gli orridi ceffi messicani e la moglie dello sceriffo che urla “che tu e tuo fratello possiate morire sputando sangue!”, quei primi piani insostenibili (ancora non sapevo fossero il marchio di fabbrica leoniano) che mettevano in risalto persino i brufoli e il sudore, nessuna storia sentimentale in sottofondo e la famiglia vessata dai Rojo, con il bambino perennemente in lacrime perché vuole la madre, costretta ad essere lo spasso sessuale di Ramòn.

Tematiche

Tutto questo mi fece l’effetto di un film horror, senza comprendere come in realtà l’epopea storica del West (e non solo) americano fosse in realtà interamente intrisa di sangue. Ma lo stile e le diverse tematiche di Sergio Leone sono già tutte racchiuse in questa pellicola: l’assottigliamento quasi totale della differenza tra cattivi e buoni, con questi ultimi che non saranno mai realmente altruisti se non per caso e comunque senza mai aver prima ottenuto un qualche tornaconto; l’attore che s’impone subito come tipo caratteriale e solo successivamente come personaggio; i cattivi davvero “cattivi”, possiamo tranquillamente definirli “pezzi di merda”, che hanno come unica possibilità di salvezza quella di essere puniti e/o uccisi dal protagonista (nel modo più sanguinoso e cruento); le donne che non entrano mai nel vivo della storia (ad eccezione di Claudia Cardinale in “C’era una volta il West”); la violenza, a volte gratuita, invero necessaria per sopravvivere in un mondo dove dominano solo l’interesse e il denaro; i personaggi rappresentati come esseri mitici, quasi soprannaturali, protagonisti di un’epopea (e un mondo fantasy) destinato a scomparire con l’avvento della civiltà e della società industriale (come sottolineato nel finale di “C’era una volta il West”, uno dei più struggenti della storia del cinema); una certa nostalgia romantica per i valori (anche quelli criminali) di un tempo e per una certa cavalleria malavitosa che sembra appartenere però più alla mentalità italiana che a quella statunitense. Uno stile che si è saputo imporre nel mondo, che ha dato (anche negli Usa) una nuova linfa vitale al genere western, ma che poco o nulla ha a che fare con la reale memoria storica del West (se volete vedere quest’ultima, visionate allora qualche film di Sam Peckinpah, troppe volte considerato a torto un emulo statunitense di Leone).

Tipizzazioni atipiche

Perché quello che interessa davvero a Leone è fare cinema commerciale (era anche un ottimo imprenditore per sé e per gli altri) sommato ad uno straordinario gusto per l’immaginazione, la fantasia ed un mondo picaresco che nascono da una ricostruzione storica lapalissiana ed ineccepibile per poi spiccare il volo e trasfigurarsi in leggenda. I suoi personaggi, infatti, non sono grandi eroi (almeno all’inizio), anzi il più delle volte risultano laidi, egoisti e asserviti al dio denaro ma, strada facendo, iniziano ad assumere tratti superomistici che li distingue dalla massa di comparse che li attornia per riscattarsi agli occhi dello spettatore e diventare finalmente “eroi” rimanendo però sempre ben inseriti nel loro contesto fin troppo reale. E questo era dovuto alle straordinarie capacità di Sergio Leone; ammettiamolo, chi altri come lui è mai riuscito a far assurgere al ruolo di eroi soggetti che in altre pellicole sarebbero stati solo la spalla, drammatica o comica, del protagonista di turno? Solamente Leone è riuscito a mostrare epicamente scene e situazioni “grottesche” e triviali come pochi altri: Tuco, il simpaticissimo “brutto” del “Buono, il Brutto e il Cattivo“, in quali altri film poteva essere protagonista, rozzo e sboccato com’è, quasi un folletto che si muove sguaiatamente attorno a Clint Eastwood? Chi altri poteva epicizzare magnificamente Juan Ramirez, che all’inizio di “Giù la testa” viene ripreso mentre sta orinando per terra? E che dire di diverse scene di “C’era una volta in America”, come il famoso riconoscimento a pantaloni calati, lo stupro di Deborah o l’amplesso di Noodles all’interno di un carro funebre, per non parlare del personaggio di Carol che supplica Noodles di picchiarla e violentarla? In altri film, sarebbero state scene triviali o addirittura comiche, con Leone assumono addirittura qualcosa di solenne, al di là della realtà fisica, che si consegna al mito. Infatti, le pellicole di Leone sono grandiose non nell’insieme del racconto, ma nelle singole scene, che possiamo tranquillamente chiamare manuali di cinema: costruzioni cinematografiche barocche orchestrate magnificamente con una perfetta sinergia tra regia, montaggio e musica, grandiosamente leggendarie e forse un po’ a discapito dell’approfondimento dei personaggi (uno dei limiti di Sergio Leone, bisogna ammetterlo), ma che riescono a creare un connubio inscindibile tra l’azione e i tempi morti, un altro cavallo di battaglia del regista romano.

I tempi morti

Già, i tempi morti: diversi cineasti hanno sempre preferito farne a meno e di certo il più delle volte possono risultare noiosi, ma Sergio Leone riuscì nella non facile impresa di renderli coinvolgenti, una capacità che sarà fatta propria anche da Quentin Tarantino, ma lì si tratterà solo di citazioni celebrative. Leone, dicevamo, fu abile nel farne parte integrante della trama, un elemento valido anche nell’emozionare lo spettatore. Due scene in particolare esplicano bene questa tematica: Tuco che giunge per primo al cimitero per trovare la tomba di Arch Stenton in “Il buono, il brutto e il cattivo“. Nonostante il sole cocente, l’uomo inizia a correre affannosamente tra migliaia di croci e tombe provando a scorgere in quella selva la sepoltura, che dovrebbe contenere l’oro per cui ha smaniato per tutto il film. L’azione è tutta qui: per svariati minuti vediamo solo un tizio che corre a destra e sinistra e nient’altro. Questo è un tempo morto, un momento della pellicola in cui non succede niente oppure si verifica distrattamente un raccordo con la scena successiva.
In un altro film sarebbe stato noioso, ma non certo per Leone: grazie ad un abile alternanza di primi piani, campi medi e lunghissimi e, soprattutto, per merito della splendida colonna sonora di Ennio Morricone (in questo caso, il brano “L’estasi dell’oro”), lo spettatore si appassiona anche a quella sequenza lunga, spropositata e apparentemente insignificante di Tuco, tanto più spasmodica quanto più aumenta la brama di ricchezza dell’uomo.
Un’altro efficace esempio di tempo morto “emozionante” è all’inizio del medesimo film, quando Sentenza (Lee Van Cleef) va a trovare Stevens per farsi dire dove si trova la cassa con l’oro rubato: per diversi interminabili minuti, i due si osservano a tavola mentre stanno pranzando (Sentenza ha allontanato brutalmente i familiari dell’uomo e si è seduto davanti a lui per intimidirlo). Non proferiscono parola, non si muovono e non mangiano neppure (a parte Sentenza). Noia? Nemmeno per sogno, bastano i loro due primi piani per accrescere la tensione fino all’angoscia: Stevens che fissa Sentenza sempre più inquieto e turbato, mentre quest’ultimo lo guarda con calma, beffardo e minaccioso, finchè l’uomo prende la parola e l’ansia sfuma, almeno per un po’. Emozione alle stelle, eppure anche qui non succede quasi nulla. Genialità, c’è poco da aggiungere.

Gli attori

I film di Leone non sarebbero mai stati gli stessi se non avessero avuto degli attori di prima categoria ad interpretarli. Clint Eastwood, Gian Maria Volontè, Lee Van Cleef, Eli Wallach, Henry Fonda, Charles Bronson, Jason Robards, Rod Steiger, James Coburn, Robert De Niro e James Woods, solo per citare quelli più noti. L’intuito del regista romano nell’aver scelto interpreti strabilianti ci ha regalato personaggi che spesso partono troppo tipicizzati assumendo solo in seguito una verità realistica, finendo impressi nella memoria collettiva grazie ad un gesto, un sopracciglio teso o addirittura uno sputo. Ma la grande protagonista della saga leoniana (che copre 100 anni esatti di storia americana, dalla guerra di secessione fino agli anni Sessanta del Novecento) è e resterà sempre la musica, partorita da quel grande sperimentatore di sonorità di Morricone: delle note gettate impressionisticamente sulla pellicola, capaci di ricreare l’atmosfera da saloon persino tramite l’uso di strumenti che con l’America non c’entrano nulla, come lo scacciapensieri siciliano, oppure di un’intera orchestra classica che restituisce una melodia avvolgente che sembra fluttuare direttamente dentro l’inquadratura. Non importa che sia l’apertura di un duello tra pistoleri oppure la rievocazione di un ricordo nostalgico: con Leone e Morricone la musica sarà sempre una Protagonista come gli attori e la fotografia, non si accontenta mai di essere solo un accompagnamento proveniente da chissà dove, non è fuori dalla scena ma intrinseca ad essa.