Gli anni Novanta sono stati il decennio della Sicilia, nel bene e nel male: da un lato la riscoperta culturale ed artistica dell’Isola grazie anche, se non soprattutto, al cinema, dall’altro la stagione delle stragi mafiose e la capitolazione dell’ala corleonese di Cosa Nostra. In tutto questo contesto trovarono il loro spazio l’Oscar 1990 per il Miglior Film Straniero di “Nuovo Cinema Paradiso” e la nascita del breve filone del cosiddetto “neo neorealismo” di “Mery per sempre” e “Ragazzi fuori” di Marco Risi: film che fornirono non solo un modo genuino per rappresentare certi ambienti sociali sul grande schermo, ma anche un’immagine della Sicilia lontana sia dai facili stereotipi che dalla retorica sulla povertà cronica del Meridione. E proprio il neo neorealismo permise a diversi cineasti siciliani di cimentarsi con questa nuova corrente per provare a dimostrare di essere in qualche modo autori, a volte non riuscendoci affatto. E’ il caso, in parte, della carriera discontinua del regista palermitano Aurelio Grimaldi: maestro elementare con un’esperienza lavorativa trascorsa tra i quartieri difficili del capoluogo siciliano ed il carcere minorile “Malaspina”, Grimaldi si fece notare inizialmente come scrittore con alcuni romanzi che poi avrebbe trasposto al cinema. Tra questi, appunto, “Mery per sempre”, che nel 1989 diventò un film per la regia di Risi e fu sceneggiato dallo stesso Grimaldi (la figura del protagonista Marco Terzi, interpretato da Michele Placido, è modellata proprio su di lui). L’inaspettato successo della pellicola portò ad un sequel l’anno dopo, “Ragazzi fuori”, sempre con Grimaldi a curare il soggetto e la sceneggiatura. Tutto ciò permise all’ex maestro di avvicinarsi alla settima arte e a firmare la sua prima regia nel 1992 con “La discesa di Aclà a Floristella”, il film di cui ci andiamo ad occupare. Vincitore del premio Solinas e successivamente presentato anche al Festival del Cinema di Venezia, questa controversa pellicola, a mio modesto parere, è la quintessenza di tutto quel cinema che pretende di essere “d’autore”, ma risulta solo pretenzioso ed anche involontariamente inquietante. E dev’essere proprio per questo motivo che il film non viene quasi mai nominato quando si ci occupa di Grimaldi e di cui, dopo una fugace uscita in Vhs, non esiste neppure un formato Dvd in Italia, mentre all’estero è possibile reperirlo.

La trama

Aclà Rizzuto, un ragazzino biondo di undici anni, vive con la numerosissima famiglia nelle assolate campagne della Sicilia più interna e povera a cavallo degli anni Trenta; le fonti di sostentamento provengono dal lavoro del padre e dei fratelli più grandi, impiegati come minatori nella vicina zolfara di Floristella, e dal denaro spedito periodicamente da una delle sorelle, emigrata da anni in Australia con il marito . La sorella diciassettenne Concetta viene sedotta ed abbandonata, con ingravidamento incluso, dal picconatore Rocco Caramazza, sposato. Per far fronte all’indigenza economica della famiglia Rizzuto, Caramazza viene ricattato dal padre di Aclà e costretto a far assumere a Floristella altri due fratelli adolescenti del bambino; come controparte, però, Caramazza pretende un altro figlio dei Rizzuto da impiegare come “caruso” alle proprie dipendenze. La scelta ricade su Aclà, il più grande dei figli piccoli, che l’uomo compra letteralmente dalla famiglia tramite il patto del cosiddetto “soccorso morto”. In miniera, gradualmente, il piccolo si rende conto delle condizioni bestiali in cui si ritrovano a lavorare tutti i minatori, pagati una miseria ed abbruttiti dal duro mestiere: costretti a muoversi sotto terra ed a stare completamente nudi per il calore infernale determinato dallo zolfo, affaticati dalle ore ed ore di estrazione del minerale (condotta con metodi arcaici, per non dire primordiali) e martoriati dal trasporto rigorosamente a spalla di enormi ceste colme di zolfo grezzo da trattare all’esterno. Tutto ciò, oltre a dover restare a dormire in miniera cinque giorni su sette, determina quindi un ambiente malsano e promiscuo in cui soprusi, furti di minerale e abusi sessuali, non solo tra gli adulti ma persino sui bambini impiegati nel lavoro, sono all’ordine del giorno. Dopo appena una settimana di lavoro, Aclà viene preso a cinghiate da Caramazza per essersi fatto rubare durante la notte lo zolfo pronto per essere venduto; scappa e torna a casa. Picchiato selvaggiamente dal padre, è costretto a tornare alla miniera ma, dopo aver subito altre violenze e molestie, fugge ancora. Ritrovato dai carabinieri dopo qualche giorno in una grotta della zona, questa volta Aclà non può fare altro che accettare il suo triste destino, mentre la fuga resterà confinata solo nei suoi sogni.

Il film

Sull’inferno delle zolfare siciliane, situate tra le province di Agrigento, Enna e Caltanissetta, e la vergogna dei “carusi” esiste una vasta letteratura che va da Verga (Rosso Malpelo) a Pirandello (Ciaula scopre la luna), nonché una sequela di denunce e battaglie sindacali che portarono prima al ridimensionamento del lavoro minorile e poi a condizioni di lavoro migliori per gli zolfatari finché il fenomeno non si assottigliò per poi giungere alla chiusura definitiva delle miniere nei primi anni Settanta, quando la Sicilia perse il primato nella produzione mondiale di zolfo. Prima di parlare del film è bene spiegare cosa fosse il “soccorso morto”: si trattava di un contratto (spesso in nero) con cui la famiglia del caruso otteneva un prestito di centinaia di lire da parte del picconatore il quale, finché non veniva estinto il debito, poteva tenere il fanciullo con sè, anche se avesse raggiunto l’età adulta, disponendo di lui come meglio voleva, in pratica poteva anche trattarlo come una cosa di sua proprietà; poichè spesso le famiglie non riuscivano a saldare, il caruso restava a disposizione del minatore anche per tutta la vita con una retribuzione da fame.
Passando al film di Grimaldi, c’è da dire che l’opera esplica molto bene il concetto di soccorso morto e descrive con grandi scene corali le diverse mortificazioni che gli zolfatari subivano sul lavoro; con l’impiego di attori del teatro regionale e di non professionisti che parlano in dialetto stretto (anche se la cadenza tradisce l’origine palermitana di buona parte delle comparse e non è assolutamente la parlata della provincia di Enna, dove si trova appunto il Parco minerario di Floristella) Grimaldi riesce nell’intento di rendere l’immediatezza della messa in scena, che via via si trasforma però in qualcosa di gratuitamente simbolico ed espressionista. Ed è proprio per questo che il film, nonostante si affanni nel volerlo dimostrare, non può assolutamente essere considerato un film d’autore: purtroppo il regista scivola in quella trappola in cui cadono molto spesso i cineasti convinti che l’uso di musica classica solenne e citazioni colte (sia pittoriche che cinematografiche) basti per fare del loro prodotto qualcosa che venga apprezzata ai festival e soprattutto dalla critica. Ispirandosi come modello base a Pasolini (evidente in primo luogo nella tematica della sessualità libera, a cui tra poco ci arriviamo), Grimaldi avvolge buona parte del girato del film di quel genere di musica che fa tanto intellettuale e che alla fine è solo un ornamento fine a sè stesso (in questo caso abbiamo la famosa aria “What Power Art Thou”, tratta da “King Arthur” del musicista inglese barocco Henry Purcell, peraltro utilizzata in chiave parodistica anche da Martin Scorsese in “The Wolf of Wall Street”). Per non parlare dei rimandi alla pittura rinascimentale e del ‘500 (Caravaggio e Mantegna, soprattutto), anche se ben fotografati da Maurizio Calvesi, che non aggiungono niente, ma che sono belli da vedere; è la verità,  qui le citazioni artistiche non fanno andare avanti la storia nè influiscono in qualche modo sulla psicologia e l’agire dei personaggi. E quelle cinematografiche? Secondo voi, sono ben amalgamate nella storia? Macché! Come ci insegna il vero cinema, la citazione ci può anche stare, ma se non la si inserisei con il semplice gusto del cinefilo o per far vedere che può ancora funzionare in un film recente, allora è meglio lasciare perdere. Che poi in “Aclà” non si tratta mica di citazioni: no, il regista ricostruisce intere sequenze tratte da altri film noti e meno noti (ancora Pasolini, di cui forse Grimaldi vorrebbe essere l’omologo siciliano, e Francois Truffaut con il suo “I quattrocento colpi”, di cui il regista ricopia il finale). No, signori, questa non è citazione, è solo un’imitazione del cinema vero che sa invece raccontare ed emozionare. Di conseguenza, anche il pesante simbolismo del film è superfluo e inutile, già nel titolo: la discesa nelle tenebre della miniera come metafora di discesa nelle tenebre del cuore (sai che novità), la mente sensibile che si scontra con un ambiente ostile e crudele (che lagna!), i sogni e l’immaginazione come unica valvola di sfogo in una realtà opprimente (mi sto commuovendo) e via discorrendo. Per il resto, si deve riconoscere a Grimaldi la passione per il racconto, l’immaginazione visiva e il tentativo di fondere insieme cinema popolare e d’élite. Fossero solo questi i difetti del film, si potrebbe anche dire che esso sia un onesto prodotto salvabile e meritevole di un seguito (di estimatori, non di sequel!), invece i veri problemi cominciano adesso.

Scene sgradevoli, autocompiacimento e pedofilia involontaria

Un altro grande difetto dell’opera è il costante inanellamento di una disgrazia una scena dopo l’altra: il tono generale è serissimo, non c’è mai un momento comico o di distensione (anche se la presenza di alcuni noti caratteristi strappa un sorriso qua e là), nei dialoghi non si fa altro che lamentarsi della propria vita o esternare qualche desiderio nascosto, che immediatamente dopo viene frustrato, e la sensazione dello spettatore è quello di doversi aspettare una tragedia da un momento all’altro (che arriva puntuale, ma si rivela un sogno. E allora che cacchio c’entra?). E adesso giungiamo a quegli aspetti che hanno fatto fioccare alcune polemiche e che sono alla base della scarsa circolazione della pellicola. Il film sarà anche realistico, sarà anche artistico (o quel che è), vorrebbe esplorare le situazioni più estreme per esaltare un’innocenza, una sensualità ed una forza d’animo primigenie rispetto all’umanità odierna, eppure tutto quello che ne risulta è un’interminabile sequenza di scene sgradevolissime: violenze (finte, assicurano i titoli di coda) sugli animali, volgarità visive e verbali (“Hai la bocca che profuma ancora di minchia!”), insistite ambiguità sessuali (non c’è niente di male nell’essere gay, ma non capisco perché l’omosessualità venga esaltata in alcune scene e in altre sia invece condannata), un sentore di amoralità diffuso e un certo compiacimento nell’alimentarlo, nonché situazioni scabrose che, involontariamente o meno, coinvolgono Aclà e gli altri piccoli protagonisti. Già, i bambini; “ma non c’è nessuno che pensa ai bambini???” direbbe la signora Lovejoy dei Simpson. No, non ci pensa nessuno: credo di non aver mai visto così tante brutalità e molestie su minori come in questo film. E l’interrogativo sorge spontaneo: perchè? D’accordo, si voleva raccontare la vita infernale dei carusi delle zolfare, con quelle nudità forzate a causa del gran caldo, ma non c’era certo bisogno di insistere su una vera e propria sessualizzazione dei piccoli.  Ci sono troppi momenti in cui i bimbi si accovacciano per fare i bisogni con ripetuti dettagli dei loro genitali, battutacce adulte pronunciate da minorenni, continue inquadrature di bambini nudi ripresi con un certo voyeurismo che rende il tutto ancora più morboso, adulti che compiono gestacci irripetibili davanti ai piccoli, adulti e bambini nudi che occupano la stessa inquadratura. Forse il regista voleva osare e spingersi laddove nessuno aveva mai pensato di poter agire, ma non vi è quella poesia dei corpi e della sessualità esposta da Pasolini nella famosa “Trilogia della vita”, qui c’è solo una certa curiosità malata nel filmare dei bambini (e nessuno, oggi, si sognerebbe di farlo) addirittura in pose palesemente languide. Pedofilia involontaria in definitiva, senza tanti giri di parole. Molte delle piccole comparse, è stato detto e scritto, provenivano da contesti degradati o difficili quindi potevano anche essere cresciuti velocemente da capire perfettamente il significato di molte scene, ma ciò non giustifica alcune sequenze come quella in cui i minatori si appartano con i bambini. Che poi questa insistenza, invece di esaltare (in modo discutibile) le gioie della sessualità, finisce per renderla solo squallida; inoltre, il film sembra sostenere che gli zolfatari passassero le giornate a stuprarsi reciprocamente piuttosto che lavorare (sì, i momenti in cui li vedi armeggiare con gli attrezzi sono pochissimi, invece abbondano quelle scabrosi) e si può affermare che sminuisce o ridicolizza quel mondo ormai estinto. Insomma, la loro vita era dura, ma certamente il sesso non era l’unica e sola risposta al loro male di vivere, come invece vorrebbe suggerire il film. Ed è un peccato, perché la ricostruzione storica è ineccepibile, anzi è uno degli elementi migliori del film: sembra davvero di essere in un’altra epoca e l’atmosfera è di una storia senza tempo (si capisce che siamo in epoca fascista unicamente dalla foto del Duce che campeggia nella caserma dei carabinieri, da un gruppo di giovani che canticchia “Faccetta nera” e dalle poche macchine che ogni tanto compaiono) e gli attori sono tutti spontanei e in parte.

Il regista e gli attori

Nonostante questo esordio controverso, Grimaldi produsse i suoi film migliori grosso modo tra il 1993 e il 1999, con alcuni picchi creativi come “La ribelle”, con una giovanissima Penelope Cruz, “Le buttane” (la sua opera migliore), presentato a Cannes nel 1994, e il disastroso “Il macellaio” che fece un certo rumore nel 1998 perché avrebbe dovuto lanciare Alba Parietti come star erotica ed invece toppò alla grande. Dopodiché, girò altri lungometraggi (dove ogni tanto riaffiorava flebilmente questa sua tematica ricorrente della sessualità condivisa tra adulti e minori) e adesso si occupa di documentari e regie teatrali. Un discorso a parte meritano gli attori di “Aclà”, tutti bravissimi: il piccolo Francesco Cusimano, che interpreta Aclà, poteva essere una rivelazione ma questo è stato il suo primo e unico film se escludiamo la sua partecipazione a “Ragazzi fuori” due anni prima (era uno dei due bambini in bicicletta nella sequenza iniziale); abbiamo anche due attoroni che proprio con questa pellicola si sono fatti conoscere a livello nazionale, Luigi Maria Burruano (il padre di Aclà) in quello che poi sarebbe diventato il suo ruolo-clichè, il siciliano sanguigno e collerico, e Tony Sperandeo (Rocco Caramazza) sul quale c’è poco da dire, bisogna guardarlo per apprezzarlo. In mezzo al mare di attori non professionisti (tra cui i bambini, come detto prima, selezionati dallo stesso Grimaldi tra i suoi alunni che seguiva a Palermo) spicca anche Lucia Sardo (la madre di Aclà), anche lei destinata ad una fortunatissima carriera. Infine, una menzione particolare per Giovanni Alamia (scomparso nel 2000 a soli 49 anni, interprete di uno dei minatori), che per anni costituì un duo canoro umoristico con Sperandeo, famosissimo in Sicilia.

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