Rielaborazione di un articolo comparso sul sito edicoladipinuccio.it nel 2013
E’ una moda degli ultimi vent’anni quella di rivalutare pellicole che, quando uscirono, non ebbero alcun successo o passarono completamente inosservate. E’ il caso di Vite perdute, film palermitano del 1992 diretto da Giorgio Castellani. Castellani, scomparso a 58 anni nel 2011, oltre a questa pellicola ha diretto un altro film nel 1997, I Grimaldi. Ma non è per la sua breve carriera di regista che viene ricordato dai più: il suo vero nome era infatti Giuseppe Greco, figlio di Michele Greco, noto capomafia della contrada Ciaculli di Palermo e, per alcuni anni, anche capo dei capi in seno a Cosa Nostra. Fortemente attratto dalla Settima Arte, Giuseppe cercò per tutta la vita di affermarsi in campo cinematografico, riuscendoci solo tre volte: come regista negli anni Novanta, appunto, ma anche come attore in un solo film, la commedia scollacciata Crema, cioccolata e…paprika di Michele Massimo Tarantini, film girato a Palermo nel 1981 con i soldi del padre e che comprendeva, oltre allo stesso Greco (inespressivo), attori del calibro di Franchi & Ingrassia, Renzo Montagnani, Barbara Bouchet e Silvia Dionisio. La pellicola, durante il maxi processo di Palermo del 1986/87 al gotha mafioso, fu materia di indagini ai danni di Giuseppe, in quanto alcune magliette promozionali del film furono ritrovate nel covo di un mafioso ed una Mercedes, che compare in alcune scene, risultò essere di proprietà di Nino Salvo, esattore potentissimo in odor di mafia insieme al cugino Salvo; il sospetto era verificare se la pellicola di Tarantini fosse stata prodotta con proventi illeciti, ma non venne alla luce nessuna prova e Greco finì assolto.
Questa parentesi biografica è necessaria per comprendere lo stile e le tematiche di Vite perdute: un film che può anche essere definito trash, ma è qualcosa di più, un prodotto strano dove, tra le righe, è possibile leggere qualcosa di più profondo, anche inquietante, ed ora vedremo perché. In teoria, il film si riallacciava al fortunato filone anni Novanta del cosiddetto “neo-neorealismo”, quel ritorno del cinema italiano a registrare ed interpretare la vita vera delle fasce sociali del nostro Paese senza lungaggini o drammatizzazioni eccessive. Il filone era partito con gli ottimi film di Marco Risi Mery per sempre e Ragazzi fuori, ambientati a Palermo, che alla fine degli anni Ottanta riscossero un notevole successo portando, con il coevo Nuovo cinema Paradiso, una ventata di aria nuova allo stantio cinema italiano, già allora a corto di idee. Nelle intenzioni di Castellani, il film doveva essere una sorta di seguito delle due opere di Risi ed infatti chiamò come protagonisti i ragazzi che avevano partecipato ai film: Maurizio Prollo, Filippo Genzardi, Salvatore Termini e Alfredo Libassi, ad eccezione di Francesco Benigno, passato ad altro genere, e Roberto Mariano, scomparso nel frattempo. Ma i paragoni terminano qua.
Idee molto confuse
Infatti, le reali intenzioni di Castellani non riescono mai a venire fuori; si avverte, per un’ora e mezzo di film, una totale incapacità del regista a gestire il racconto e a spiegare le motivazioni dei protagonisti, anzi viene il dubbio se Castellani faccia sul serio o prenda deliberatamente in giro lo spettatore; per esempio, in molte scene che dovrebbero essere drammatiche c’è sempre un personaggio, una battuta, ma anche solo un dettaglio che fa scadere la pellicola nel ridicolo involontario. E poi, situazioni senza senso o personaggi incoerenti che nel giro di poche scene cambiano completamente carattere senza neppure una motivazione credibile. Ma in fondo, il film non ha neppure una trama vera e propria: ad occhio e croce, è un miscuglio di poliziesco, neo-neorealismo, sceneggiata e dramma sociale. Troppa carne al fuoco, insomma, tant’è che non c’è neppure un protagonista assoluto: dovrebbe esserlo il personaggio di Rosario Raito (interpretato da Gianni Celeste, cantante neomelodico catanese qui alla sua prima, e unica, prova di attore) che però entra in scena a un quarto d’ora dall’inizio, quando il protagonista sembra invece un suo amico, e senza che si sappia nulla di lui, come non lo sappiamo per buona parte del film; si capisce solamente che è un capo, o comunque uno tenuto in grande considerazione dalla sua banda. E’ anche quello più approfondito psicologicamente, ma della serie “poveraccio a causa della società”, infatti rapina, rapisce, uccide vecchi inermi, fa disperare la mamma e gioca a fare l’impunito con la polizia, ma è una vittima della società quindi tutto gli è concesso. E va anche in chiesa, cosa si può volere di più! Proprio la scena con lui sull’altare è una delle più esilaranti, ma anche più strane, del film sia perché Rosario, nel suo monologo alla don Camillo davanti al crocefisso, dice una stupidaggine dietro l’altra, sia perché, ad un certo punto, nomina Giulio Andreotti senza una ragione precisa. Ma ora vedremo. E, per magia, a venti minuti dalla fine scompare, bruscamente com’era apparso, e non sappiamo più niente di lui. In modo sgangherato, cercando di imitare la narrazione episodica dei due film di Risi, Castellani infila alcune storie parallele in cui i protagonisti sono gli amici di Rosario, ma senza che tutto ciò porti ad uno sviluppo della trama; ci sono, addirittura, episodi che vengono lasciati a metà, con personaggi appena accennati che svaniscono nel nulla. Ed è un vero peccato, perché gli attori sono quelli di Mery per sempre, ma mentre in quel film i ragazzi erano bravissimi, spontanei e genuini, in Vite perdute sembrano recitare senza un coordinamento da parte del regista, sono spaesati e molti di loro recitano sopra le righe, strabuzzando gli occhi e gesticolando oltre ogni dire, come fa anche il protagonista Celeste che trasforma ogni frase in una declamazione. Non parliamo poi dello stile di regia che vorrebbe essere quello di chi vuole dimostrare di essere bravo, ma che invece annaspa nel brutto e nel volgare: riprese di inseguimenti da poliziesco di serie Z, tempi morti, inquadrature infarcite di dialoghi soporiferi, una fotografia (di Tonino Maccoppi e Marco Onorato) discreta, almeno questa, che mescola sapientemente luci e ombre; peccato che c’entri poco con le vicende ridicole che incornicia e dipinge Palermo come una bidonville africana. E poi la musica, firmata comunque da un bravo compositore come Claudio Simonetti, il leader dei mitici Goblin che tanto hanno fatto per Dario Argento; qui però Simonetti si limita a riciclare alcune sue partiture già utilizzate in altri film (come Demoni di Lamberto Bava) e abusa dell’elettronica con risultati orrendi, come nei titoli di testa in cui rifà male i Carmina Burana di Carl Orff. E a questo punto, possiamo finalmente esaminare i due elementi che rendono questo film così strano ed inquietante. Il primo è la religione. Sì, perché tutta la pellicola è impregnata di un fatalismo cattolico cupo e serissimo, in cui si fanno dei paralleli tra la storia di Rosario e le vicende evangeliche oppure appaiono diverse madonne e sante rosalie (siamo a Palermo) in troppe inquadrature, anche se non c’entrano niente, o addirittura si arriva ad una scena involontariamente quasi blasfema, quella di Rosario che imbastisce un’ultima cena con gli amici a base di salame e birra; Castellani non è Bunuel, ma il suo effetto lo fa. Ma lo spettatore si domanda: perché? La storia non è certo edificante, Rosario e i suoi compari sono chiaramente dei balordi, neppure troppo simpatici, e non si può nemmeno cercare nel regista quella propensione alla religiosità ed al senso del sacro che era di Pasolini, anche perché la religione di Vite perdute è quella degli ignoranti, non esente da superstizione e violenza gratuita, quel cattolicesimo provinciale usato per giustificare ogni azione umana, persino quella più abietta.
Il senso del regista per la mafia
Ci colleghiamo quindi al secondo elemento di questo film, inversamente proporzionale al primo: il sentire mafioso. La religiosità di Castellani è quella, inevitabile, di una persona cresciuta secondo i canoni degli uomini d’onore; non per niente, ogni azione violenta di Vite perdute è anticipata da qualcuno che è uscito da una chiesa, ha partecipato ad una processione, ha pregato o si è fatto il segno della croce, come i vecchi sicari di mafia che si facevano benedire prima di compiere un omicidio. Ed è questo che rende il film ambiguo, inquietante e al di là di ogni immaginazione. Nessuno dei personaggi pronuncia mai la parola “mafia”, ma è evidente che Rosario e i suoi amici sono scagnozzi, magari non di Cosa Nostra, ma di qualche organizzazione criminale ricchissima; i continui riferimenti alla politica, come la già citata scena di Andreotti, o i politici rappresentati come esseri corrotti che usano gli uomini d’onore quando gli servono, sembrano quasi dei messaggi destinati a chi di dovere. E che dire inoltre dell’ossessione per gli “infami” che tradiscono, i poliziotti e i magistrati cattivi, gli spioni che fanno una brutta fine, i siciliani tutti onore e rispetto, mentre i veri criminali sono solo romani e napoletani, ed il discorso di Rosario alla madre su uomini e ominicchi che riecheggia molto Sciascia. Ancora, il maschilismo del film è uno dei più beceri e cafoni di tutto il cinema italiano: le donne valgono qualcosa solo come mogli e madri, per il resto sono puttane, stronze, traditrici e menefreghiste. E, con la scusa che il film vuole essere un racconto morale sulla vita di strada, vengono squadernate situazioni dettate solo dall’interesse, dall’onore o dall’egoismo più turpe, per giunta messe ben in evidenza come se fossero le uniche cose giuste da fare. Sembra assurdo che un film così allucinante abbia potuto trovare una distribuzione, seppur minima, ma in definitiva non ha nulla per poter essere rivalutato: è obiettivamente brutto e, al termine della visione, lascia nello spettatore la voglia di rifarsi gli occhi con un Risi, un Grimaldi o un Garrone.
Nota a margine: Vite perdute è il film che vedono al cinema i protagonisti di E’ stato il figlio di Daniele Ciprì (2012), verso la fine della pellicola. Sarà un caso, visto che subito dopo la loro vita prenderà una brutta piega?