Rielaborazione di un articolo comparso sul sito edicoladipinuccio.it nel 2013
Sebbene buona parte dei film di terrore del Bel Paese li ho scoperti durante l’adolescenza, da bambino l’horror era per me i manifesti, le locandine esposte all’ingresso delle sale che, fino ai primi anni Novanta, erano disegnate ed accendevano immediatamente la fantasia dello spettatore da risultare, a volte, più belle persino del film reclamizzato. Non potendo certo vedere le pellicole, poiché mia madre preferiva evitarmi incubi notturni, mi deliziavo ad immaginare le situazioni più terrificanti tramite le locandine, appunto, ed i trailer che vedevo in tv. Quelli di vent’anni fa erano magicamente emozionanti, grazie ad un montaggio sapiente che annullava le scene noiose ed alla geniale trovata di inserire alla fine lo stesso manifesto del film, che risultava la classica ciliegina sulla torta aggiungendo quel qualcosa in più per divertirsi o inquietarsi. Tramite quelle immagini di pochi minuti, entravo in un mondo di paure ancestrali, irresistibili per la mia adrenalina. Ma si trattava soprattutto di horror americani in quanto, alla fine degli anni Ottanta, l’horror italiano era ormai entrato nella sua fase calante e non riesco a ricordare neppure un trailer di qualche film di paura italico, eccezion fatta per “Dove comincia la notte” (1990) di Maurizio Zaccaro, un thriller oggi di culto che all’epoca era stato fatto passare per un horror, ma, a parte l’atmosfera, non lo è affatto. Durante l’adolescenza, ho scoperto che il cinema di genere italiano non era solo Fantozzi, Bud Spencer e Terence Hill, Franco e Ciccio o gli spaghetti western, ma anche un universo popolato da vampiri, zombi e demoni, mescolati insieme in un modo che solo gli italiani sapevano fare e che gli stessi americani hanno apprezzato negli anni.
A parte Dario Argento, che resta il genio indiscusso dell’orrore e che ormai è l’unico ad occuparsi ancora di spaventare il pubblico, non sapevo che esistessero anche altri registi horror nel nostro Paese, ma il problema è presto detto: mentre Argento, nel corso della propria carriera, si è occupato unicamente di thriller/horror spaventosi, gli altri registi hanno spaziato per anni nei generi più diversi o lontanissimi dall’horror, soffermandosi sul sangue e il terrore solo per lo spazio di poche pellicole. Mai avrei potuto immaginare che Lucio Fulci, oggi riconosciuto maestro dello splatter, avesse diretto negli anni Sessanta una sostanziosa fetta dei film di Franchi e Ingrassia, per giunta quelli che apprezzavo di più a dieci anni. E che dire di Lamberto Bava, autore della celebrata saga fantasy della tv italiana anni Novanta, “Fantaghirò”, che scoprii essere l’artefice di “Demoni” (1985) e “Demoni 2” (1987), tra gli horror commerciali italiani più famosi all’estero, evidenti fonti di ispirazione per Tarantino e Rodriguez nel film “Dal Tramonto all’alba”? Dei film horror italiani ricordo tante citazioni (dei titoli, più che altro) alle medie, soprattutto per “La chiesa” (1989) di Michele Soavi (anche lui passato da tempo a tutt’altri argomenti), cult dei ragazzini della prima metà dell’ultimo decennio del Novecento, o la stessa serie dei Demoni, ma nessuno nominava mai i registi, anzi si dava per scontato che i film con effetti speciali fossero prerogativa degli americani.
Grazie a Tarantino, sempre lui!, i nostri horror sono stati riscoperti in Italia, dopo essere stati troppo frettolosamente messi nel dimenticatoio; e registi come Riccardo Freda, Mario Bava, Antonio Margheriti, Lucio Fulci, Sergio Martino, Lamberto Bava, Ruggero Deodato e Michele Soavi sono tornati magicamente alla ribalta, conosciuti e apprezzati magari da chi, fino a qualche anno prima, non li considerava proprio. L’horror italiano è stato certamente il genere cinematografico più bistrattato al mondo: considerato per troppo tempo di derivazione (e in parte lo era), ridotto alla stregua di un’ accozzaglia di frattaglie sanguinolente e spaventi gratuiti, negli ultimi vent’anni è stato rivalutato come settore di tutto rispetto. In fondo, i detrattori avevano comunque una parte di ragione, perché nel cinema italiano vi è sempre stata, in tutti i generi, una certa tendenza all’eccesso, al bisogno di gettare una trovata grossa nel bel mezzo dell’azione per impressionare il pubblico. Anche l’horror nostrano ha seguito questa tendenza con il suo sangue a fiotti, le budella che saltano fuori anche quando non ce n’è bisogno, i suoi zombi sporchi, putrefatti, sicuramente puzzolenti; voleva colpire per prima cosa lo stomaco dello spettatore e poi spaventarlo. Non è un espediente giusto, secondo me, ho sempre creduto che la paura e il disgusto non possono andare d’accordo, perché il dettaglio ributtante può anche starci, ma se non c’è l’atmosfera, il giusto equilibrio a sorreggere tutto, l’azione orrifica va a farsi benedire; anche nei racconti di Edgar Allan Poe c’è l’effetto sanguinolento, ma esso è accompagnato da un immaginario romantico – funereo che angoscia lo spettatore sin dall’inizio. I film horror italiani, non tutti, non hanno mai seguito questa regola. Ma alcuni registi talentuosi sono comunque riusciti a fare paura, nel senso letterale del termine. Lucio Fulci, ad esempio, era abile nell’orchestrare effettacci insieme a scene di pura angoscia, forte delle sue letture di Lovecraft e Matheson: nei film che ha prodotto tra la fine degli anni Settanta e gli inizi degli anni Ottanta, tra cui “L’aldilà”, “Zombi 2”, “Paura nella città dei morti viventi”, “Quella villa accanto al cimitero”, è riuscito ad unire un suo particolare gusto per il disfacimento del corpo e la violenza (da cui il soprannome “poeta del macabro e della crudeltà”, affibbiatogli dai critici francesi) con la costruzione di situazioni paradossali quanto terrorizzanti, infischiandosene delle regole di genere o addirittura creandone di nuove. Non mi dilungo su Dario Argento, tanto è conosciuto ed apprezzato in Italia e all’estero (viene citato nei dialoghi del film “Juno”), preferisco una carrellata su altri registi italiani di horror meno ricordati. Tra questi c’è da menzionare Pupi Avati, proprio il regista di buoni film drammatici, ma che aveva iniziato la sua carriera come film-maker di horror, opere personalissime in cui il terrore nasce da una riuscita commistione tra grottesco, orrore e quotidiano, con risultati da vedere per credere come in “La casa dalle finestre che ridono” (1976) e “Zeder” (1983), in cui l’Emilia Romagna, terra del vino e delle belle donne, diventa un luogo mostruoso dove si agitano fantasmi rimossi e crudeltà di provincia (come nei film “normali” di Avati, d’altronde, in cui il passato è un’ossessione che ritorna). Anche Umberto Lenzi, abile regista di poliziotteschi e action movie, ha praticato a volte incursioni non proprio eccelse nell’horror, girando “Incubo sulla città contaminata” (1980, praticamente rifatto da Robert Rodriguez in “Planet Terror” e citato da Danny Boyle in “28 giorni dopo”), “La casa 3” (1988), “La casa del sortilegio” (1989) e “La casa delle anime erranti” (1989), gli ultimi due girati per la televisione; film che, pur avendo qualche trovata geniale, dimostrano che l’horror non è mai stato nelle corde del regista toscano, troppo avvezzo ai luoghi comuni dei film di paura. Come non è mai stato in quelle di Claudio Fragasso, artefice della mini saga di “Palermo – Milano, sola andata” e “Milano – Palermo, il ritorno” e regista di quel “Troll 2” (1990) eletto da un gruppo di appassionati in America “peggior film horror mai girato”, con dibattiti organizzati ogni anno e prese in giro su Youtube. Ma forse i peggiori horror italiani sono quelli di Bruno Mattei, scomparso recentemente, regista di perle come “Virus, l’inferno dei morti viventi” (1980), “Rats, notte di terrore” (1984) ed autore di una serie di “direct – to – video” (film realizzati direttamente per il Dvd) girati negli anni 2000, in cui Mattei cercava di rifare horror con lo stesso stile e ritmo degli anni Settanta, inutilmente perché quei film non possono più essere prodotti, in quanto non funzionano più nello stesso modo a causa di un pubblico più smaliziato rispetto al passato che ha bisogno di ben altro per spaventarsi. A salvare i film di Mattei, un certo umorismo fumettistico ed una sana presa in giro dei canoni orrorifici. E’ triste dover constatare che nell’ horror italiano sia rimasto solamente Dario Argento a dirigere; il futuro del nostro horror resta quindi aggrappato alle sue mani, anche se, da poco, alcuni di quei registi superstiti stanno progettando di ritornare a quel genere. Si spera, intanto continuiamo a riscoprire i reperti di una stagione irripetibile del cinema italiano.
ottima fattura.Complimenti!Conoscenza dei films fenomenale.Critica eccezzionale!